Coloro che bazzicano sui mercati finanziari ne avranno senza dubbio sentito parlare anche nel caso in cui non li abbiano mai utilizzati come strumento d’investimento. Le opzioni call e put sono abbastanza note, almeno riguardo alle loro caratteristiche essenziali. Non tutti, però, ne conoscono i vantaggi e anche i possibili rischi rispetto ad un investimento diretto. Esse sono contratti derivati, che consistono nell’assegnare all’acquirente la facoltà, ma non l’obbligo, di acquistare/vendere il titolo sottostante (in genere, azioni, ma anche asset come “criptovalute“) ad un dato prezzo di esercizio (“strike price”) ed ad una certa data. La parte che acquista tale facoltà paga un premio e la parte che lo vende è tenuta a contrarre ove l’altra lo desideri. In altre parole, il venditore del premio si assume l’obbligo di soddisfare la volontà dell’acquirente.
Opzioni call e put, cosa sono
Opzioni call e put si differenziano tra di loro per il fatto che le prime sono uno strumento idoneo per speculare al rialzo sulle quotazioni dell’asset sottostante, mentre le seconde sono uno strumento per speculare al ribasso. Infatti, le opzioni call servono per scommettere sull’aumento di prezzo di un titolo. Chi versa il premio, ha la facoltà di “bloccare” il prezzo di acquisto fino a una certa scadenza. Nel caso di un’opzione put, invece, chi versa il premio spera che il prezzo scenda, così che possa vendere il titolo sottostante al prezzo superiore pattuito con il venditore.
Esempio di opzione call
Facciamo un esempio semplice a testa per le opzioni call e put. Tizio acquista da Caio il premio relativo a 100 azioni, versando complessivamente 300 euro e pattuendo un prezzo di esercizio di 105 euro contro i 100 euro attuali. La scadenza viene fissata a 90 giorni. In pratica, egli si aggiudica la facoltà di acquistare le azioni a 105 euro da qui a tre mesi. In cambio, spenderà 3 euro per ogni azione. Immaginiamo che alla scadenza il prezzo di mercato dell’azione sia effettivamente salito a 110 euro. Egli avrà tutta la convenienza ad esercitare l’opzione, in quanto spenderà 10.500 euro per l’acquisto delle 100 azioni, ma che potrà rivendere immediatamente dopo a 11.000 euro. Il suo guadagno ammonterà a 200 euro: 500 euro saranno la plusvalenza maturata dalla rivendita e 300 euro erano stati il costo per acquistare il premio.
Se alla scadenza il prezzo delle azioni fosse salito, per ipotesi, a 104 euro, Tizio non avrebbe avuto alcuna convenienza ad esercitare l’opzione, in quanto avrebbe speso di più di quanto il mercato gli avrebbe riconosciuto rivendendo il titolo sottostante. In questo caso, egli subirà una perdita pari a 300 euro, che è l’ammontare speso per l’acquisto del premio.
Esempio di opzione put
Riproponiamo lo stesso esempio, stavolta con un’opzione put. Tizio acquista da Caio il premio relativo a 100 azioni, versando complessivamente 300 euro a titolo di premio per bloccare il prezzo di esercizio a 90 giorni a 105 euro. Immaginiamo che il prezzo di mercato alla scadenza fosse di 101 euro. Egli avrà convenienza ad esercitare l’opzione. Potrà vendere le azioni a 105 euro l’una, incassando 10.500 euro, acquistandole un attimo prima per 10.100 euro. Il suo margine sarà di 400 euro, ma che scende al netto del premio versato a 100 euro. In ogni caso, il bilancio resta positivo. Se la stessa azione alla scadenza salisse a 107 euro, Tizio non eserciterebbe l’opzione. Infatti, perderebbe 2 euro per azione, cioè 200 euro in tutto, vendendo a prezzi più bassi di quelli di acquisto. La perdita complessiva salirebbe a 500 euro, includendo il premio versato.
Quando l’esercizio delle opzioni call e put è conveniente, si dice che esse siano “in the money” (prezzo strike inferiore/superiore al prezzo di mercato). Se l’esercizio non è conveniente, sono “out the money” (prezzo strike superiore/inferiore al prezzo di mercato). Infine, se l’esercizio è indifferente, sono “at the money” ( prezzo strike e di mercato coincidono).
Investimento più basso
E ora veniamo ad un aspetto meno indagato delle opzioni call e put, vale a dire il loro relativo vantaggio rispetto all’acquisto diretto del sottostante. Nell’esempio di cui sopra, se volessimo speculare sul rialzo/ribasso del corso azionario, dovremmo acquistare i 100 titoli per un esborso complessivo di 10.000 euro. Invece, con i contratti derivati siamo in grado di limitare il nostro esborso iniziale ai 300 euro, che è il costo per il versamento del premio. Solo in fase di esercizio dell’opzione impiegheremmo il restante capitale, ma a quel punto avremmo la certezza di riportare un guadagno immediato rivendendo o acquistando il titolo sottostante sul mercato.
Perdite contenute
Non è neanche detto che tale esborso debba avvenire. Il premio stesso può essere fonte di guadagno nel caso in cui si riferisca ad un’opzione “in the money”. Man mano che ci si avvicina alla scadenza del contratto e il prezzo di mercato resta inferiore/superiore al prezzo strike dell’opzione call/put, il valore dell’opzione sale e rivendendola l’investitore può maturare un guadagno senza il bisogno di esercitare l’opzione di acquisto/vendita. Anche in caso di perdite, poi, le opzioni call e put si mostrano relativamente vantaggiose. Una volta che si inserisce in portafoglio un titolo azionario, l’investitore si espone allo scenario estremo di un azzeramento del suo valore di mercato. Nel nostro esempio, perderemmo tutti i 10.000 euro spesi in fase di investimento. Con i contratti di opzione, la perdita massima che potremmo subire è pari all’importo versato per il premio, che si avrebbe nel caso in cui i prezzi del sottostante si muovessero nella direzione per noi indesiderata e non ci converrebbe esercitare la facoltà prevista.
Opzioni call e put complicate e profitti ridotti
Esistono, comunque, anche svantaggi in relazione a un investimento diretto. Come detto, le opzioni call e put comportano il pagamento di un premio e questo riduce i profitti potenziali nel caso in cui i prezzi del sottostante si muovessero nella direzione auspicata. Inoltre, il prezzo delle opzioni stesse è molto volatile, risentendo di svariati fattori come il prezzo del sottostante, il prezzo di esercizio, la volatilità implicita (attesa del mercato riguardo alla futura volatilità del prezzo del sottostante), la durata residua del contratto e i tassi di interesse. La complessità del calcolo fa sì che questi strumenti non siano sempre di facile comprensione, per cui il loro utilizzo spesso rimane contenuto agli investitori professionali, mentre il piccolo investitore individuale preferisce il più delle volte acquistare direttamente il titolo, magari anche facendo uso dell’effetto leva per limitare l’esborso.