Tasse su Crypto in Italia: aumentano dal 26% al 42%

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Le dichiarazioni di Maurizio Leo 

Tasse su crypto in Italia: un problema sempre più sentito dagli investitori. Con una proposta che già sta facendo il giro del Web, attestandosi come vera e propria doccia fredda per i crypto-investitori del Bel Paese, il governo italiano, per bocca del Viceministro all’Economia, Maurizio Leo, durante la conferenza stampa del 15 ottobre, ha avanzato senza troppi mezzi termini la volontà di innalzare dal 26% al 42% l’aliquota relativa al prelievo fiscale sulle relative plusvalenze in cryptovaluta. 

Come ovvio, la notizia si è diffusa a macchia d’olio, raccogliendo tra investitori, bitcoiners e “hodler” un vasto e uniforme dissenso. 

Peraltro, oltre ai già notevoli sedici punti percentuali in più, ciò che spicca quasi quanto il classico “danno oltre la beffa” è quanto la misura non colpisca minimamente gli strumenti che trattano la materia crypto da versanti puramente finanziari, che rimangono fissi al pregresso 26%. Alcuni hanno associato la suddetta discrepanza alla recente visita di Larry Fink, CEO di BlackRock, alla Presidenza del Consiglio, e di certo la congiuntura, se non attendibile, sembra tuttavia perfetta per dare adito alle più maliziose interpretazioni.  

Non saranno dunque gli ETC o gli ETF emessi su Bitcoin o altri asset digitali ad essere interessati dalla rettifica, ma solo le plusvalenze su “giacenze” evidentemente dichiarate all’origine, ovvero banali somme successivamente cresciute di valore. In altri termini, una misura che colpisce direttamente gli investitori “nativi” che hanno abbracciato la rivoluzione di Satoshi Nakamoto e in generale la cryptosfera.  

Il quadro europeo  

La notizia, laddove confermata definitivamente e come ovvio tradotta in sede applicativa, andrebbe a collocare il nostro paese tra i meno crypto friendly dell’intero novero comunitario, specie se consideriamo quanto l’unico nome ad attestarsi sul medesimo livello del 42%, la Danimarca, risulti complessivamente più performante di noi sul piano della diffusione e relativa adozione del fintech, e in generale del grado di innovazione in materia di moneta elettronica. La Danimarca è infatti da tempo considerata un pioniere nell’ambito dei pagamenti digitali.

Diverse ragioni spiegano questa leadership, partendo dall’alta penetrazione di soluzioni a infrastruttura digitale, con soluzioni innovative (come MobilePay, un’app di pagamento mobile sviluppata da Danske Bank e diventata estremamente popolare tra i cittadini). Per quanto tale aspetto non sia formalmente connesso alle soluzioni crypto-based, è evidente che una preesistente attitudine al mondo dei pagamenti via QR-code e affini risulta un ottimo viatico per la formazione di base su soluzioni crittografiche e appunto decentralizzate.  

Di contro, l’Italia, pur avendo registrato una crescita significativa dei pagamenti digitali negli ultimi anni, è ancora in fase di recupero rispetto ai paesi nordici, per ragioni molteplici e stratificate nel tempo: disparità Nord e Sud, diffuso attaccamento al contante, problematiche infrastrutturali, digital divide, abitudine radicata al rapporto diretto col soggetto bancario, e via discorrendo. Un dettaglio non da poco, che ridefinirebbe di molto i termini del confronto, e andrebbe a caratterizzare la citata Danimarca come paese in cui la corposa imposizione fiscale sulla plusvalenza potrebbe addirittura attestarsi come dinamica sistemica conseguente all’alto valore aggiunto delle attività finanziarie dirette e indirette connesse al campo delle cryptovalute. 

In Italia accade l’opposto: il paese risulta già indietro rispetto ad altri, e rischia di inasprire questa sua posizione, di fatto creando un ambiente ostile alla rivoluzione crypto e alle sue positive ricadute in termini di investimenti. 

Un rapido sguardo ad altri paesi come Francia (34%), Spagna (28%), Germania (di poco sopra alla nostra attuale) e Gran Bretagna (20%), per non parlare della vicinissima Svizzera, dove le plusvalenze non vengono neppure tassate, e dove sono peraltro ben noti gli investimenti in campo blockchain (basti pensare al crescente successo dell’iniziativa ticinese PlanB), induce a formulare da subito qualche riflessione su quanto questa manovra possa essere dannosa sia in senso assoluto che appunto nel confronto relativo ad altre nazioni, sia comunitarie che limitrofe. 

Si rischierebbe non solo di incentivare in modo neppure troppo nebuloso la fuga di capitali, o più banalmente l’effetto contrario di un loro totale occultamento al fisco, ma anche di rigettare quegli stessi investimenti che alcuni nomi di spicco — tra i quali il discusso Elon Musk, da sempre paladino della cryptosfera — avevano dichiarato di voler impiantare e dedicare all’Italia. Non da ultimo, il rischio di favorire, specie per la popolazione meno formata, l’adozione di comportamenti rischiosi, come l’attitudine a rivolgersi ad exchange di dubbia fama e con poche garanzie di solvibilità. 

Logicamente la proposta non è ancora stata formalizzata per l’avvio di una discussione parlamentare, ma spicca comunque l’estrema sicurezza e precisione con cui il Viceministro dell’Economia Leo, in presenza del Ministro Giancarlo Giorgetti, abbia rivelato un intendimento di tali proporzioni. Si tratta infatti di una posizione che anche solo sul piano dichiarativo, come detto, ha gettato scompiglio e malumore in numerosi settori aventi a che fare col mondo blockchain e Bitcoin in Italia. 

Peraltro, stiamo parlando di una compagine di governo che ha sempre inteso la materia fiscale come capitolo di bilancio da rivedere e rettificare “al ribasso” in favore della classe media, con specifico riferimento all’impresa e al mondo produttivo. Prospettiva che oggi, in vista dell’imminente manovra finanziaria (già complessa e spinosa di per sé), sembra veramente comunicare tanto ai contribuenti, quanto ai mercati, una svolta radicale, inaspettata, nonché per molti versi inspiegabile e quindi foriera di incertezza e pericolosa instabilità. 

Quanto potrebbe valere la manovra? 

Una delle prime curiosità conseguenti a quanto dichiarato sarebbe capire l’ammontare dell’eventuale gettito generato da tale incremento dell’aliquota. Per fare questo, la prima fonte, per quanto non analiticamente segmentata, è certamente il dato fornito dall’OAM (acronimo per Organismo degli Agenti e dei Mediatori), ente che dal maggio del 2022 costituisce lo standard istituzionale italiano al quale tutti gli operatori del settore crypto interessati all’attività di cambiavalute, ovvero di exchange crypto, devono obbligatoriamente iscriversi e attenersi. 

La cifra evidenziata negli ultimi tre mesi si attesta a poco più di due miliardi di euro, in cryptovalute che ovviamente non possono essere identificate, ma che statisticamente, e per ragioni piuttosto evidenti in termini di ricercata rivalutazione da parte degli investitori, risulta difficile siano solo stablecoin (ben più probabile l’esatto opposto, solo satoshi, o un mix di satoshi e al limite derivative Ethereum).

Ebbene, calcolando il plusvalore più alto, nell’ipotesi di un acquisto al ribasso di soli BTC i primi di agosto 2024 (a circa 49.500 euro), fino ad oggi (a circa 62.000 euro), si ottiene un gain di poco superiore al 30% medio. Ammesso e ovviamente non concesso che i soggetti interessati dalla manovra siano anche prossimi al relativo cash out, si parla dunque, nel caso “migliore per il fisco”, di un imponibile di seicento milioni di euro, che nel caso specifico del surplus di 16 punti percentuali ipotizzati dalla manovra si tradurrebbe in un centinaio di milioni di euro aggiuntivi rispetto alla sua assenza e al permanere della situazione pregressa. 

In altri termini, appena cento milioni di euro per le casse dello Stato, con la ricaduta delle sopraccitate dinamiche di fuga verso altre giurisdizioni e allontanamento di capitali e progetti a vario titolo orbitanti nel campo della finanza decentralizzata. 

Vale la pena tutto questo? Considerando che il nostro calcolo si attesta su cifre addirittura ottimistiche dal lato del legislatore, ma pesanti dal lato utente e investitore, e tenendo conto della bufera che questa manovra andrebbe a determinare nei mercati stessi, e in parte ha già determinato, sembrerebbe proprio di no. 

Interpretazioni e reazioni 

Ma per quale ragione il Viceministro ci ha tenuto a comunicare questo infelice passaggio? Semplice leggerezza? Riferimento a “settori da disciplinare” che sono stati descritti con quote e numeri eccessivi, ma che poi verranno prontamente smentiti? Dichiarazione a effetto, solo per innescare paure che a scadenza saranno sfatate a puro scopo contro-speculativo? Oppure l’affermazione segue effettivamente la ferrea volontà di produrre un nuovo gettito, da un campo che a detta degli oratori in conferenza “sta prendendo piede” e sembra essere in tal senso promettente? 

 Ad oggi non è possibile interpretare con certezza le ragioni di tale uscita mediatica e della sua disinvoltura. Ciò che è certo è che la compagine governativa sta affrontando un frangente non esattamente sereno, specie se consideriamo altre questioni piuttosto scomode e imbarazzanti che si sovrappongono a quelle in esame: si pensi all’aumento delle accise benzina, al mancato innalzamento delle pensioni, alle spese per la gestione dei flussi migratori, alle polemiche sulle spese per invio armi, e via discorrendo. 

Di certo la “doccia fredda” — così l’abbiamo definita in apertura, e così in effetti è stata per gli investitori — non si è spesa al cospetto di una pubblica opinione particolarmente incline a perdonarla, per quanto costituita da addetti ai lavori di certo non paragonabili alla vasta platea di contribuenti generici. 

Addetti ai lavori che però non hanno tardato a farsi sentire, sia con un’ondata di prevedibili anatemi che ha invaso i profili social dei responsabili, sia, più istituzionalmente e come ovvio autorevolmente, attraverso dichiarazioni di personaggi del calibro di Ferdinando Ametrano, professore all’Università Milano-Bicocca, nonché figura tra le più illustri in Italia nella divulgazione su finanza decentralizzata e blockchain, che sull’accaduto ha speso parole precise: “Misura discriminatoria, iniqua, e molto probabilmente incostituzionale.” 

A onor del vero, non mancano neppure le voci dissenzienti all’interno della maggioranza di governo, tra cui Giulio Centemero, membro della commissione Finanze e Coordinatore Nazionale del Dipartimento Innovazione della Lega, che in materia, nel suo account social Twitter/X, è stato certamente tiepido, ma critico nell’esprimere un concetto chiaro: inasprire le aliquote potrebbe essere controproducente, allontanare la compagine internazionale di investitori e porre un freno alle politiche di innovazione; per questo è necessario avviare un dialogo e un confronto. 

Sempre su Twitter/X, il ben più famoso Paolo Ardoino, CEO di Tether, si è espresso in modo estremamente eloquente: “Più qualcosa ha successo più va tassato! Come osano i sudditi usare il Bitcoin come protezione/opzionalità verso le politiche finanziarie italiane!” 

Abbiamo chiesto anche all’avvocato Lars Schlichting, dello studio Lexify di Lugano, da tempo impegnato nel campo delle normative comunitarie in tema di cryptovalute, nonché tra i massimi e più aggiornati esperti in materia, di esprimere un sintetico parere su quanto accaduto in Italia. La risposta è stata schietta e laconica: “Da svizzero dico bene, grazie mille governo italiano per spingere le vostre menti e le vostre start-up del settore in Svizzera. Ma a dirla tutta sono triste, perché questi continui attacchi creano un danno non solo all’Italia, ma a tutta l’Europa.” 

Possibili scenari e conclusioni 

Di certo la notizia, se presa per vera, non appare come detto particolarmente positiva per il settore crypto in Italia, specie dal lato investimenti. Un regime fiscale avverso, come detto collocato in un territorio certamente dotato di imprese eccellenti, ma nel complesso piuttosto arretrato sul piano della mass adoption, dei pagamenti digitali e dell’educazione finanziaria in tema di asset digitali, transazioni e pagamenti onchain, non depone a favore del rapido sviluppo di un comparto crypto che possa superare l’asperità delle relative curve d’apprendimento e tradursi in una tessitura omogenea tra utenti, esercenti, imprese, istituzioni e investitori. 

Peraltro, come anticipato, una direttiva così pesante in un paese ancora poco incline al digital gold rischia di ottenere il classico effetto boomerang, ossia una frontale e definitiva riluttanza a dichiarare al fisco qualsivoglia giacenza di asset digitali, in primis Bitcoin. 

Sarà dunque importante dare seguito, qualora si passi dalle parole ai fatti, a una più vasta interlocuzione promossa dalle classi imprenditoriali e accademiche che si occupano professionalmente di decentralizzazione e relative applicazioni, sia in campo economico e monetario, sia applicativo. La posta in gioco è evidentemente molto più alta di quanto il legislatore possa intuitivamente pensare, ed è per questo che serve un salto di qualità, soprattutto sul piano dell’educazione e della conoscenza. 

All’orizzonte, la stessa Europa sta muovendo passi che potrebbero rivelarsi tanto delle occasioni di crescita e sviluppo, quanto delle trappole — si pensi all’incognita dell’euro digitale e alle sue potenziali ripercussioni — in grado di consegnare a competitori esterni la chiave di un primato che, facendo rete, sarebbe stato capitalizzato internamente, con conseguenze positive in termini di crescita, effettiva transizione digitale e sviluppo di opportunità e nuovi mercati. 

L’Italia non può stare a guardare, specie se le misure che intende mettere in atto inseguono la facile, per quanto presunta, monetizzazione da gettito fiscale. L’auspicio è dunque quello di un ragionevole ripensamento. 

 

 

 

 

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