Il crollo delle borse di questi giorni, seguito alla guerra dei dazi venutasi a scatenare con l’annunciato maxi-aumento delle tariffe da parte del presidente americano Donald Trump lo scorso 2 aprile, ha fino ad ora diffuso la sensazione che il problema sia certamente grave, ma più che altro di natura finanziaria. E a primo impatto lo è senza dubbio, perché la finanza ha il compito di scontare in anticipo come si muoveranno gli asset sottostanti nel medio-lungo periodo. In questo senso, tendono a precorrere gli eventi sul mercato dei beni e dei servizi. E questa è una pessima notizia per consumatori, imprese e lavoratori.
Guerra dazi fine della globalizzazione
La guerra dei dazi si sostanzia nella progressiva chiusura dei mercati sul piano dei commerci. Gli stati esportano e importano meno tra di loro. In apparenza, un esito positivo per le economie meno competitive o per quei settori al loro interno che hanno ceduto il passo nell’era della globalizzazione. Ma quello che ci dicono che le borse in questa fase è che alla fine a pagare il conto saremmo chiamati tutti. Il fatto che le azioni crollino di prezzo, riflette l’attesa di minori profitti. E minori profitti sono la conseguenza di minore fatturato, cioè di produzione in calo.
In un’economia globale caratterizzata dalla chiusura commerciale, la ricchezza complessiva tende ad abbassarsi. Le imprese diventano più protette dalla concorrenza esterna, per cui possono permettersi di produrre meno e a costi (e prezzi) più alti. I consumatori pagano merci e servizi di più e il loro potere di acquisto si riduce. E’ vero che si verrebbero probabilmente a creare nuovi posti di lavoro per via della maggiore produzione domestica che va a rimpiazzare le importazioni, ma se ne distruggerebbero molti di più negli altri settori per effetto del calo generale del potere di acquisto. In pratica, le famiglie nel loro insieme subiranno un costo superiore al beneficio ricevuto. Si accusa così una perdita secca di benessere sociale, come accade nei mercati monopolistici.
Borse mondiali in ritirata dopo il boom?
Cosa può succedere agli investimenti nel possibile nuovo sistema economico mondiale? Le borse mondiali hanno corso tantissimo negli ultimi decenni, anche grazie alla globalizzazione. L’indice S&P 500, che raggruppa le 500 maggiori società quotate a Wall Street per capitalizzazione, ha guadagnato il 2.700% negli ultimi 40 anni, vale a dire la media dell’8,7% all’anno. E senza contare che perde più del 20% dai massimi toccati poche settimane fa. Il mercato azionario è stato per molto tempo una sorta di paradiso per gli investitori. Bastava parcheggiarvi il denaro e attendere che rendesse. Nel lungo periodo i guadagni erano assicurati.
Non è stato così dappertutto. La Borsa di Tokyo solo da qualche mese aveva cancellato le perdite risalenti alla fine degli anni Ottanta. Ci erano voluti intorno ai 35 anni per tornare in verde, più di una generazione. E non a caso l’economia del Giappone in questi decenni è stata stagnante, oltre che in deflazione. Senza voler eccedere nel pessimismo, questo trend può fungere da esempio per qualcosa di simile che potrebbe accadere alle altre principali borse mondiali in una fase di deglobalizzazione.
Futuro incerto per bond
E i bond? In un contesto di fuga dei capitali dall’azionario ci dovremmo attendere una ripresa dell’obbligazionario. Ma storicamente ciò è avvenuto in un ambiente di inflazione e, quindi, tassi calanti. C’è il rischio, invece, per quanto abbiamo appena spiegato sopra, che l’inflazione nei prossimi anni torni a salire per stabilizzarsi sopra i livelli medi dell’era della globalizzazione. Ciò condurrebbe a rendimenti nominali più alti, non più bassi. Proprio per questo acquisterebbero maggiore appeal le criptovalute come i Bitcoin. Da ieri registrano forti rialzi, in scia al recupero del mercato azionario. Ciò si deve alla maggiore propensione al rischio tra gli investitori, i quali continuano a considerare questi asset particolarmente rischiosi e tendono a disfarsene nelle fasi di tensione finanziaria.
Ma andando oltre la contingenza, investire in Bitcoin particolarmente può rivelarsi vincente in un’ottica di lungo periodo. Questo è un token digitale dalla natura deflattiva, visto che la sua decentralizzazione non consente a una qualche entità di emetterne in circolazione a piacimento. Al contrario, la sua offerta massima salirà entro i prossimi decenni a 21 milioni di unità. La quantità sinora immessa sul mercato ammonta a 19,65 milioni. Questo vuol dire che l’apice sarà raggiunto con un incremento dell’offerta di meno del 6,5% rispetto ai livelli attuali. E tutto questo avverrà in molti anni. Se la domanda si mantiene perlomeno costante, le quotazioni reggeranno. Anzi, potranno salire considerevolmente con una maggiore adozione per i pagamenti o anche solo per diversificare i portafogli d’investimento e persino le riserve valutarie.
Più importanza agli asset deflattivi
Cosa c’entra tutto questo con il discorso sui dazi che abbiamo fatto? Come detto, la restrizione dei commerci porterebbe all’inevitabile aumento dei costi di produzione. Le aziende sarebbero indotte a colpi di barriere tariffarie e non a produrre nelle vicinanze dei mercati in cui vendono. Ciò ridurrà la competizione salariale, ma avverrà a discapito dell’offerta di merci e servizi a prezzi bassi. Ci sarebbe, quindi, una strutturale salita dell’inflazione dopo decenni di prezzi stabili e in alcune fasi persino calanti, fatta eccezione per il biennio passato. La guerra dei dazi non farà che risaltare l’importanza degli asset che proteggono dall’inflazione. Il mercato azionario ha svolto questo compito storico, ma le cose potrebbero cambiare proprio con la deglobalizzazione.
Guerra dei dazi opportunità storica per Bitcoin
Le valutazioni sinora alte scontano mercati aperti e la possibilità per le imprese quotate in borsa di fatturare vendendo ovunque. Tutto questo verrebbe parzialmente meno con la chiusura dei mercati sul piano commerciale. Gli stessi bond non è detto che sopperiranno alle perdite azionarie nei portafogli. I capitali pretenderanno giustamente rendimenti nominali più alti per proteggersi dal maggiore costo della vita. Era accaduto l’opposto proprio con la globalizzazione, che abbassando l’inflazione, aveva sostenuto i prezzi dei bond e fatto scendere i rendimenti. Il cambio di paradigma spingerebbe il mercato a cercare nuovi asset su cui puntare per mettere a frutto i capitali e tenerli al riparo dalle tensioni internazionali. L’oro continuerà a fare certamente la sua parte, anche se le sue quotazioni sono storicamente legate all’andamento del cambio del dollaro, tutt’altro che certo nel lungo periodo. Non è forse un caso che lo stesso governo americano stia puntando su Bitcoin, quasi a volersi tenere aperta una porta per il caso in cui il mondo tradizionale, che abbiamo conosciuto fino ad ora, cambi.