Investire in oro è stato molto redditizio negli ultimi anni. Le quotazioni sul COMEX ormai superano i 110 euro per grammo e nel mese di ottobre sono arrivate a superare i 120 euro. Un rialzo del 36% dall’inizio dell’anno e del 130% in cinque anni. Pensate solamente che all’inizio del nuovo millennio un grammo si acquistava ancora per meno di 9 euro. Un’esplosione di oltre il 1.150% che rende felici coloro che hanno in casa gioielli, lingotti e monete. Come spesso si usa tra le famiglie italiane, si tratta in molti casi di oggetti ereditati da genitori e nonni. E principalmente per loro ci sono novità in fatto di tassazione sull’oro.
Tassazione sull’oro in Italia
A dire il vero, una ci fu agli inizi dello scorso anno e non ebbe connotati positivi. Dovete sapere che fino alla fine del 2023 la tassazione sull’oro era forfetaria. Poiché il metallo giallo tende a variare di prezzo nel tempo – e, tendenzialmente, è soggetto a rivalutazione nel lungo periodo – nel momento in cui lo si rivende, si possono generare plusvalenze, ossia guadagni. Questi sono sottoposti ad aliquota del 26%, la stessa che sia applica in via generale sui redditi di natura finanziaria. Tuttavia, in considerazione del fatto che si trattasse di un prodotto spesso acquisito senza finalità speculative e dalla difficile tracciabilità riguardo ai prezzi e date di acquisto, tale aliquota veniva applicata solamente su un quarto del prezzo di vendita.
Dallo scorso anno, la tassazione sull’oro è diventata molto più pesante. L’aliquota del 26% si applica sull’intero importo. A meno che il rivenditore non possegga fattura o scontrino per dimostrare a quale prezzo abbia effettuato l’acquisto. In quel caso, l’imposta insiste sulla differenza tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto dimostrabile. E’ molto raro che una famiglia conservi il documento fiscale a distanza anche di anni. Come detto, in molti casi i prodotti in oro sono posseduti a seguito di donazioni o eredità. Nei fatti, dal 2024 la tassazione sull’oro è quadruplicata, passando dal 6,5% (1/4 del 26%) al 26%.
Ipotesi affrancamento
Questa stangata avrebbe “congelato” il mercato secondario. Poiché è diventato molto più oneroso rivendere, molte famiglie sono state dissuase dal farlo, perlomeno sul mercato ufficiale. Sappiamo che il mercato nero è sempre esistito, specialmente quando si tratta di preziosi. Ed è per questa ragione che il governo avrebbe in mente una novità, questa volta favorevole ai possessori. Attenzione, non sarebbe un vero e proprio passo indietro. La tassazione sull’oro resterebbe quella introdotta dallo scorso anno, cioè al 26% sull’intero prezzo di rivendita. Tuttavia, si consentirebbe ai possessori di affrancare il prezzo ai fini fiscali. In pratica, il possessore avrebbe l’opportunità di allineare il valore dell’oro posseduto ai prezzi di mercato. Pagherebbe un’aliquota del 12,5%. In una prima fase della discussione, a dire il vero non pubblica, si era parlato di aliquota del 18%.
L’affrancamento sarebbe solo per alcuni mesi. Sempre stando alle indiscrezioni di questi giorni, ci sarebbe tempo fino alla fine di giugno del 2026 per aderire. E il versamento in favore del fisco dovrebbe avvenire entro settembre. Ci sarebbe la possibilità di dilazionare il pagamento fino a tre rate. Dopo la prima, le altre due includerebbero un tasso di interesse del 3%. L’affrancamento non porterebbe necessariamente alla rivendita, la quale potrebbe essere rinviata sine die. Quando e se avvenisse in futuro, l’aliquota del 26% si applicherebbe solamente sull’eventuale plusvalenza rispetto al prezzo a cui è avvenuto l’affrancamento.
Esempio di affrancamento e convenienza
Vi dimostriamo con un esempio pratico il discorso sin qui compiuto. Immaginate che Tizio abbia acquistato in passato un lingotto d’oro di 100 grammi e che ai prezzi di mercato attuali rivenderebbe per circa 11.000 euro. A meno che non fosse in grado di dimostrare il prezzo di acquisto con relativa fattura, sarebbe tenuto a pagare al fisco 2.860 euro. E’ il 26% dell’intero prezzo di rivendita. Con l’affrancamento, però, pagherebbe il 12,5%, cioè 1.375 euro. Supponiamo che tra alcuni anni il prezzo dell’oro risulti salito a 150 euro al grammo. Rivenderebbe il lingotto per 15.000 euro. Ma non dovrebbe più pagare il 26% su tutta la cifra incassata, bensì sulla differenza tra di essa e gli 11.000 euro a cui era avvenuto l’affrancamento. Il 26% si applicherebbe, dunque, sugli ultimi 4.000 euro. L’esborso sarebbe di 1.040 euro. Sommato ai 1.375 euro dell’affrancamento, farebbero 2.415 euro.
Che la tassazione sull’oro sarebbe più conveniente, lo dimostrano queste cifre. Senza affrancamento, Tizio pagherebbe sulla rivendita del lingotto 3.900 euro, in quanto sarebbe tenuto a versare il 26% sull’intera cifra incassata. Il risparmio è evidente. Lo stato punta a incassare qualche miliardo di euro, sebbene non sia facile iscrivere a bilancio una somma attendibile, dipendendo questa dal valore delle rivendite di oro sul mercato. Una misura studiata per tamponare il “buco” apertosi con la cancellazione (totale o parziale) della doppia tassazione sui dividendi trasferiti tra società del medesimo gruppo e che ha attirato critiche feroci tra gli addetti ai lavori e gli stessi partiti della maggioranza.
La tassazione sull’oro ordinaria resterebbe vantaggiosa per alcuni
L’affrancamento sarebbe un fatto positivo sia per i possessori di oro che per lo stato. I primi risparmierebbero sulla rivendita, il secondo incasserebbe subito una cifra (pur inferiore del dovuto) che probabilmente vedrebbe dopo anni. C’è da dire che se un possessore non avesse intenzione di rivendere entro breve tempo, con l’affrancamento si troverebbe costretto ad anticipare di molto il versamento. E questo potrebbe affievolire la convenienza percepita nell’aderire all’operazione. Per non parlare del fatto che se i prezzi di mercato tornassero a scendere, a quel punto la tassazione sull’oro in via ordinaria risulterebbe più bassa e ridurrebbe la portata positiva della misura sul piano della percezione.
Ovviamente, coloro che sono muniti di fattura – in genere, chi ha acquistato a suo tempo con finalità d’investimento – dovranno farsi bene i conti. Aderire potrebbe non portare alcun beneficio sul piano fiscale. Per loro il confronto sarebbe tra l’aliquota che sarà prevista dall’affrancamento e il 26% sulla plusvalenza effettiva. Nel caso in cui la prima fosse realmente del 12,5%, l’adesione all’iniziativa si rivelerebbe conveniente nel caso in cui il prezzo di rivendita risultasse superiore a quello di acquisto di oltre il 92%. Ai prezzi di mercato di oggi, possiamo affermare che l’affrancamento al 12,5% converrebbe se l’acquisto fosse avvenuto in passato sotto circa i 57,60 euro al grammo. Considerate che questa era la quotazione di due anni fa, per cui l’operazione conserverebbe la propria validità per gran parte della platea.