Euro digitale e CBDC: se ne parla da tempo, in relazione al progressivo affermarsi delle tecnologie blockchain anche per implementare politiche monetarie del tutto classiche.
L’acronimo di cui sopra sta per Central Bank Digital Currency, ovvero valute “digitali” emesse dalle banche centrali, vale a dire gli stessi soggetti — come la Federal Reserve per gli Stati Uniti, o la BCE per l’Europa — che banalmente costituiscono i decisori circa l’emissione del denaro che tutti noi conosciamo come “a corso legale” (cosiddetta fiat money, dal 1971 sganciata da qualsivoglia imposizione sul collaterale aureo).
Il tema, pur essendo ancora piuttosto sconosciuto ai cittadini, è passibile di mille interpretazioni, ma risulta fenomenologicamente piuttosto chiaro quanto esso sia stato in parte dovuto alla nascita e allo sviluppo di Bitcoin e delle successive derivate, che piuttosto genericamente denotiamo col nome di criptovalute.
Ma in cosa consistono queste CBDC?
Sono identiche, nel loro essere appunto digitali, agli euro o alle sterline che già noi inviamo tramite home banking?
Oppure sono un’altra cosa? Se sì, in cosa differiscono dalle criptovalute? E perché sono diverse anche dalle cosiddette stablecoin, ossia token criptovalutari a loro volta legati al valore di monete nazionali come dollaro ed euro?
A queste domande cercheremo di dare una risposta chiara ed esauriente in questo articolo, che affronterà il problema attraverso esempi concreti e una sequenza logica per arrivare a capire non solo il perché delle CBDC, ma anche quelle che potranno essere sia le opportunità che le minacce di questi nuovi strumenti di scambio.
Euro digitale e rapporto con la moneta fiat
Dopo l’era delle monete esclusivamente in oro e argento (hard money) e quella successiva, caratterizzata — in seguito alla nascita delle prime proto-banche — da banconote che comunque venivano sempre emesse sulla base di una giacenza in oro (paper money), la Federal Reserve inaugura nel 1971 (amministrazione Nixon) un sistema nuovo…
Nasce la fiat money, che introduce pesantemente il concetto operativo di inflazione, cioè di perdita naturale del valore monetario a causa di una disponibilità elevata di moneta.
L’inflazione inizia a diventare una componente strutturale dell’economia prima statunitense, e via via, per ovvie ragioni di preminenza del dollaro su tutte le altre valute, di tutto il mondo.
Tale schema è stato ed è, come ovvio, la base concettuale sullo sfondo della quale si è letteralmente insediata anche la valuta ufficiale della Comunità Europea.
Ora, la moneta fiat, ossia la moneta con “valore per decreto”, risulta naturalmente votata all’uso per transazioni immediate, ossia transazioni che prendono atto della volatilità a medio-lungo termine del valore monetario, e quindi si affrettano a “rimettere in circolo” il denaro tramutandolo il più rapidamente possibile in beni di consumo, servizi, oppure investimenti (es. immobili).
In altre parole, la moneta fiat, inflativa per sua stessa definizione, tende ad essere un incentivo per l’economia spicciola, presente, attuale, e intercetta la variabile del risparmio non già “di per sé”, ma attraverso la mediazione di banche, finanziarie e istituti di credito e investimento.
La moneta elettronica “classica”
Quella che abbiamo imparato a conoscere e usare come “moneta elettronica” non ha nulla a che vedere con le criptovalute, sia per una ragione strutturale che dal punto di vista dei protocolli che ne governano la funzionalità.
Per quanto le banche centrali abbiano messo a punto meccanismi di produzione nativa di moneta elettronica, questa moneta rimane sempre, concettualmente e in larga misura operativamente, legata a un suo collaterale cartaceo, sia esso fisico, ossia effettivamente stampato dalle varie zecche di Stato), sia esso virtuale, ovvero “comandato” anche senza emissioni di cartaceo, sulla base del sopraccitato principio della caduta del regime di gold standard.
In altri termini, la moneta elettronica che ormai da tempo abbiamo imparato ad usare, da qualche tempo grazie anche ad applicazioni in rete attraverso computer, laptop, tablet e smartphone, altro non è che una rappresentazione elettronica di un deposito — in cartamoneta o virtuale, poco importa — che viene sempre concettualmente inteso come l’emissione originaria di quel novero di “coin” (euro, dollari, sterline, chiaramente originati dalla banca centrale di riferimento e poi consegnate nelle mani del mercato, essenzialmente bancario).
Escludendo il contante, quindi, tutta la moneta elettronica che gira in una certa economia, sia essa derivata da conversione analogico-digitale (versamenti di contante in banca), sia essa in parte derivante da accumulazioni originarie di emissioni virtuali, con trasmissione digitale-digitale, appartiene al grande novero della “moneta fiat trattata per comodità in una modalità digitale”.
La caratteristica precipua di questa specifica moneta elettronica è la natura assolutamente e completamente centralizzata, data dal fatto, banale, che il suo trattamento è dato da meccanismi e applicazioni che coinvolgono sempre e comunque “terze parti”, tra cui banche e circuiti internazionali che con le banche si interfacciano (Visa, Mastercard, Maestro), effettuando operazioni per conto degli ordinanti, ossia i titolari di quelli che a tutti gli effetti sono dei conti correnti o loro simili (carte di debito, prepagate, etc…).
Le criptovalute
L’esempio primario resta Bitcoin, anche se, mutatis mutandis, spesso con un grado inferiore di decentralizzazione la cosa si può estendere ad altre crypto.
Bitcoin non è emesso da alcuna banca centrale. Il suo funzionamento di produzione e diffusione, ovvero di trasferimento dall’utente A all’utente B, è governato da un algoritmo totalmente “trustless” (senza bisogno di validazioni fiduciarie), che attraverso un protocollo molto particolare rende i singoli satoshi (l’unità minima del bitcoin, scritto minuscolo per distinguerlo dal Bitcoin protocollo) equivalenti a una moneta che segue la scarsità dell’oro.
Il meccanismo cosiddetto di “halving” (dimezzamento) restituisce quindi un asset digitale non solo totalmente decentralizzato — ovvero trasferibile da A a B esattamente come del contante, anche se in via elettronica — ma anche limitato superiormente a una quota fissa (21 milioni di unità), proprio come un asset scarso.
Ne derivano alcune conseguenze dirette. Bitcoin è “oro digitale”, progettato per esistere entro una rete senza alcun padrone e senza alcun decisore umano, gestito non già da account comandati da un’autorità preposta (es. il direttore di filiale), bensì da un processo crittografico fatto di wallet che ciascuno può aprire autonomamente seguendo un semplice iter matematico computazionale.
La differenza appare quindi da subito evidente. Le criptovalute sono libere, a disposizione di tutti, indipendentemente da età, condizione sociale, credo religioso o politico, razza e sesso.
Ma non solo. Le criptovalute, per quanto registrate in un ledger pubblico che compare, perfettamente aggiornato, in tutti i nodi della rete (blockchain), non possono essere in alcun modo censurate, pignorate da agenti esterni o confiscate, come invece accade per qualsiasi conto corrente o carta di credito-debito.
A fronte dell’avvento di questo strumento di pagamento, che con Bitcoin assurge anche a strumento di risparmio deflativo (esattamente come l’oro), è evidente che l’intero sistema finanziario si è trovato di fronte alla necessità, ovvero opportunità, di aggiornarsi al fine di trovare almeno dei compromessi tra mondo centralizzato e mondo decentralizzato.
Pertanto, il vero tema intimamente connesso al giudizio delle CBDC è quello di un bilanciamento tra efficienza e controllo, modernità e libertà finanziaria.
Un caso particolare: le stablecoin
Se parlando in generale di Bitcoin o di crypto siamo al cospetto di “monete” che a rigore vivono di vita propria, prodotte da processi crittografici governati da protocolli rigorosi di validazione e messa in sicurezza (PoW, PoS, etc…), e hanno un rapporto con la moneta fiat solo per indiretto effetto delle quotazioni, nel caso delle cosiddette “stablecoin” dobbiamo fare qualche riflessione aggiuntiva.
Innanzitutto ricordiamo la definizione: una “stablecoin” (USDT, USDC, BUSD, EURS) è un token crittografico fungibile iscritto in una certa rete decentralizzata — soprattutto Etherum e relative soluzioni di layer2 o sidechain, ma ormai anche altre reti, tra cui Solana, Algorand, TON, etc… — che si “aggancia” (attraverso la funzione di specifici smart contract) al valore di un’unità di moneta fiat relativa a determinati depositi certificati.
In altre parole — a parte specifici casi in cui l’aggancio di cui sopra è garantito non da depositi, ma da operazioni algoritmiche sulla liquidità, dettaglio che comunque non inficia minimamente il funzionamento che andiamo a descrivere — le stablecoin sono criptovalute a tutti gli effetti, il cui cambio in euro o dollari resta stabile, da cui la denominazione.
La domanda a questo punto sorge spontanea: perché mai una banca centrale, che ha emesso la valuta originaria sulla quale si “appoggia” il valore delle stablecoin, dovrebbe emettere una sua valuta digitale nativa, se nel mercato esistono già le stablecoin che in fondo sono proprio quello, ossia euro e dollari decentralizzati?
La risposta sta esattamente nella parola “decentralizzazione”, visto che le CBDC somigliano effettivamente molto alle criptovalute sul piano del loro utilizzo e della semplicità della loro impostazione (per quanto gli esempi pratici siano ad oggi riferiti a paesi ben lontani da noi, come la Cina, che già da tempo ha investito in questo campo col celebre Yuan digitale), ma non estendono questa loro somiglianza sul piano, appunto, della decentralizzazione più pura e schietta.
Le CBDC, queste sconosciute
Per quanto ci è dato sapere attraverso gli studi (pochi) condotti sullo Yuan digitale, e su quelli (pochissimi) riferiti al progetto di euro digitale che ormai da mesi viene ventilato in sede comunitaria europea, solo un dato è assolutamente certo:
(1) le CBDC sono monete che verranno emesse dalle banche centrali esattamente con la stessa logica delle valute fiat (quindi senza minimamente intaccare le relative problematiche, inflazione in primis), ossia con volumi decisi a priori sulla base delle specifiche esigenze;
(2) avranno un protocollo di funzionamento “dal lato utente” morfologicamente simile a quello delle criptomonete come Bitcoin o Ethereum, impostato su un registro distribuito, quindi su uno schema almeno aparentemente decentralizzato;
(3) nonostante questa grande somiglianza in termini di agevolezza e comodità, saranno assoggettate a meccanismi di controllo totalmente centralizzati.
Siamo quindi al cospetto di protocolli “programmabili” che potremmo senza tante mezze misure definire “blockchain ibride”, cioè registri distribuiti che comunque permetteranno a nodi particolari di effettuare controlli, richiamare o censurare operazioni ritenute a vario titolo illecite o sconvenienti.
Riassumendo per sommi capi, le CBDC diventeranno una sorta di “contante digitale” facilmente gestibile anche da soggetti cosiddetti unbanked, a rigore in grado di funzionare senza la mediazione di alcun istituto bancario (o almeno così sembrerebbe), che tuttavia potrà essere in larga misura assoggettato al controllo dell’ente centrale (quale che sia) attraverso precisi vincoli imposti a monte nel relativo protocollo.
Il caso Yuan digitale (e-CNY)
Dal punto di vista storico la Cina è stata la prima a studiare, testare e in parte mettere sul mercato una sua CBDC, ossia appunto quello che chiamiamo Yuan digitale, emesso direttamente dal comparto informatico della Banca Centrale della Repubblica Popolare e utilizzabile attraverso wallet specifici, messi a disposizione ora da istituti abilitati, ora da grandi circuiti da tempo molto in voga presso la popolazione: Alipay, WeChatPay, etc…
C’e da sottolineare, appunto, che in Cina l’attitudine ad acquistare beni e servizi via QR-code o applicazioni “in forma di chat” è radicata da tempo, e quindi costituiva una sorta di presupposto pregresso molto positivo per la sperimentazione di una moneta “di Stato” che avesse anche le caratteristiche tipiche della comune moneta elettronica di circuito standard.
Le caratteristiche principali dell’e-CNY sono il fatto di essere: (1) come ovvio “legal tender”, ossia a corso legale, in quanto assolutamente equipollente allo Yuan cartaceo o elettronico; (2) perfettamente tracciabile, in quanto controllato direttamente dalla banca centrale emettitrice; (3) accessibile, anche con funzioni “offline” limitate; (4) programmabile, dettaglio che lo rende potenzialmente perfetto per la programmazione monetaria dettata “dall’alto”, con restrizioni, scadenze, connessioni fiscali chiaramente gestibili dalla burocrazia centrale attraverso meccanismi di “fine tuning” macroeconomico.
Già a questo livello di analisi, per quanto lo Yuan digitale sia ancora oggi impiegato a livello semi-sperimentale, possiamo facilmente comprendere le opportunità, ma anche le minacce relative a un’ipotetica sostituzione, anche in altri paesi, di tutto il contante con soluzioni iper-centralizzate, che potrebbero essere usate sia benefici che malevoli o discutibili.
I vantaggi sono intuitivi: efficienza, inclusione finanziaria, riduzione degli intermediari e rapporto diretto con l’autorità monetaria centrale, trasparenza e sicurezza.
Dal lato svantaggi abbiamo un’evidente perdita della pivacy, visto che ogni singola transazione è tracciata e attribuita a un cittadino, con potenziale limitazione della libertà finanziaria in casi che potrebbero anche sconfinare nella censura, nella persecuzione di attivisti politici e in simili fattispecie.
Lo Yuan digitale è ancora in fase di sviluppo e implementazione, ma rappresenta un esperimento su larga scala che potrebbe avere un impatto significativo sul futuro del denaro e dei pagamenti. Sappiamo peraltro di per certo che determinati distretti industriali in diretta connessione col mercato cinese — si pensi anche solo al comparto tessile italiano — stanno già oggi usando lo Yuan digitale come sistema di pagamento.
Perché le CBDC?
Posto che i termini della questione sono ancora piuttosto nebulosi, ovvero confinati a un progetto pilota dai toni ancora molto vaghi e sperimentali (in Europa si parla per esempio di una sperimentazione che partirà da wallet con dotazione al più di 3.000 euro digitali), le evidenze del caso sembrano confermare un orizzonte duplice.
Per alcuni potrà sembrare il paradiso della trasparenza e della correttezza, e per altri, al contrario, un vero e proprio regime del controllo. Stiamo parlando della “potenziale fine del contante”, definitivamente sostituito da una forma digitale del contante stesso.
Detta con una battuta “da bitcoiner”, tutto il peggio del contante (inflazione) verrebbe mantenuto, con in più la rinuncia a quel poco di buono che il contante rappresentava: privacy in primis.
Battute a parte, da documenti ufficiali comunitari si evince che la sperimentazione dell’euro digitale — inteso appunto come CBDC, e non come stablecoin, già esistente a cura di specifici consorzi, come quello che emette EURS — è già una realtà, e potrebbe in poco tempo diventare un progetto pilota già a disposizione dei cittadini attraverso wallet molto simili ad applicazioni come IO e affini.
Da un punto di vista motivazionale, gli scopi del legislatore non sono e non possono essere chiari, vista l’estrema novità della tematica.
Se da un lato l’euro digitale potrebbe essere un’arma molto valida per evitare, per esempio, concessione di fondi europei a soggetti successivamente caratterizzati da comportamenti egoistici e illeciti.
Pper esempio, questo aspetto si lega ai tanti fondi connessi a bandi che si perdono in paradisi fiscali, tema tristemente noto in sede parlamentare europea.
Dall’altro lato è ragionevole pensare a una manovra per contrastare politiche monetarie estere che potrebbero avere, utilizzando simili tecnologie, un impatto sul potere d’acquisto dell’euro stesso.
In altri termini, la questione potrebbe assumere i toni di una “corsa tecnologica” del tutto identica a quella che fu la corsa spaziale durante gli anni Sessanta, con la sola differenza di trattare i temi dell’egemonia monetaria.
Conclusioni
Le CBDC sono una totale novità nel panorama monetario internazionale, e si caratterizzaano come monete simili a criptovalute, ma emesse e controllate — nonché programmate — dall’autorità monetaria centrale.
A differenza delle criptomonete, esse si caratterizzano per un alto livello di controllo e centralizzazione. Questo aspetto può rappresentare vantaggi e svantaggi, ovvero opportunità e minacce, sia a livello globale che dal punto di vista del singolo utente.
Di certo le CBDC non risolvono il problema dell’inflazione, che rimane legato alla prassi della stampa o emissione di moneta al di fuori di un meccanismo calmierante tipo gold standard. In tal senso, ereditano tutti i problemi della moneta fiat in materia di conservazione del potere d’acquisto.
Paradossalmente, l’avvento più o meno massivo delle CBDC potrebbe portare a uno speculare interesse per Bitcoin, e in generale per soluzioni decentralizzate, tra cui le stablecoin, con un particolare interesse potenziale per le cosiddette privacy-coin, ossia criptovalute più direttamente connesse e dedicate all’uso in regime di privacy (Monero, z-Cash, DASH).
In tal senso, le CBDC potrebbero essere uno strumento molto interessante, con qualche riserva esprimibile dal lato della libertà finanziaria. Per questa ragione è molto importante che l’intera comunità crypto vigili attentamente sull’avvento di queste nuove modalità monetarie, con l’intento di massimizzare i vantaggi e minimizzare i rischi, specie dal lato libertà.
Filippo Albertin