Anche mercoledì 18 dicembre la Federal Reserve ha tagliato i tassi americani al range del 4,25-4,50% dal precedente 4,50-4,75%. L’entità dell’annuncio è stata dello 0,25%, come del resto si aspettavano i mercati finanziari. E’ stato il terzo taglio consecutivo. Il primo venne varato dal governatore Jerome Powell a settembre e fu dello 0,50%, superiore alle attese. Il secondo era arrivato all’indomani delle elezioni americane di inizio novembre. In appena tre mesi, quindi, il costo del denaro nella prima economia mondiale si è ridotto dell’1%.
Tassi americani in calo, ma rendimenti in rialzo
I mercati, però, non hanno reagito per nulla bene nella seduta di mercoledì. Wall Street ha chiuso in calo per la decima giornata consecutiva, mentre i rendimenti dei Treasuries sono risaliti ulteriormente. Ormai, il bond a 10 anni del Tesoro americano offre più del 4,50%. Naturale che si sia apprezzato il dollaro, portandosi ai massimi da più di due anni contro le principali valute mondiali. Il cambio Euro-Dollaro è sceso fin sotto 1,04, mentre aveva iniziato il 2024 sopra 1,10. In calo anche le quotazioni di Bitcoin, scese sotto 100.000 dollari. Il mercato delle crypto, infatti, si avvantaggia di un maggiore grado di liquidità, che a sua volta stimolo l’appetito per il rischio.
L’aspetto che più incuriosisce e certamente attira le attenzioni di tutti è l’andamento dicotomico tra tassi americani e rendimenti. Quando la Federal Reserve iniziò a tagliare i primi, il Treasury a 2 anni rendeva il 3,55%. Oggi, viaggia intorno al 4,30%. Esso riflette direttamente le condizioni monetarie, per cui risente delle decisioni di politica monetaria. Quanto accaduto è singolare: il costo del denaro è sceso dell’1% dal 5,50% al 4,50%, ma il rendimento a medio-breve termine è risalito dello 0,85%. Possiamo affermare che a settembre, i tassi americani fossero ben sopra la curva di circa il 2%. Adesso, sono sostanzialmente in linea.
L’inflazione ha tradito le attese
Cerchiamo di capire cosa sia accaduto in questi tre mesi. Quando Powell annunciò il primo taglio dei tassi americani, l’ultimo dato disponibile sull’inflazione negli Stati Uniti risaliva al mese di agosto ed era al 2,5%. Si trattava del quinto calo consecutivo e molto lasciava presagire che questo trend sarebbe proseguito nei mesi successivi. Invece, dopo settembre l’inflazione è risalita fino al 2,7% di novembre, tornando ai massimi da luglio. Lo stesso istituto ha rivisto al rialzo le sue stime per il 2025, intravedendo una crescita tendenziale dei prezzi al consumo al 2,5%.
La Federal Reserve si pone come obiettivo un tasso d’inflazione del 2%, compatibilmente con un mercato del lavoro in piena occupazione. E’ la famosa regola del doppio mandato, che diversi esponenti politici vorrebbero importare per la Banca Centrale Europea. Nei mesi scorsi, una dichiarazione esplicita in tal senso è arrivata dal presidente francese Emmanuel Macron. In pratica, la banca centrale americana ha il compito giuridico di perseguire non soltanto la stabilità dei prezzi, ma anche la crescita dell’economia nazionale, stando attenta al mercato del lavoro. Il secondo obiettivo si esplicita con un tasso di disoccupazione intorno al 4%. A novembre, era al 4,2% e cosa ancora più importante, il ritmo con cui l’economia genera posti di lavoro rimane solido.
Il mercato si riposiziona dopo la delusione
Per questa ragione Powell ha fatto presente che il taglio dei tassi americani per l’anno prossimo sarà possibile a patto che l’inflazione registri un trend in calo ulteriore rispetto agli ultimi dati. Il mercato non l’ha presa bene, perché aveva avuto l’impressione che l’allentamento monetario fosse cosa fatta e non in discussione. Invece, la stessa Federal Reserve ha stimato solamente altri due tagli dei tassi dello 0,25% ciascuno per il 2025. Lo ha evidenziato con la pubblicazione dei dot plots, che sono una peculiarità tutta americana. Si tratta di una stima degli stessi funzionari dell’istituto circa il livello dei tassi nel breve e medio termine.
Fino a poche settimane fa, il mercato intravedeva anche quattro tagli dei tassi americani per l’anno prossimo. Man mano che sono passati i giorni, però, alla luce dei nuovi dati macroeconomici queste aspettative erano state già riviste, ma la conferenza stampa di fine anno di Powell ha reso chiaro a tutti che le scommesse fossero state eccessive. E adesso di tagli ne sconta appena uno, per l’esattezza alla riunione del FOMC di maggio. A questo punto viene da chiedersi se Powell non abbia fatto il passo più lungo della gamba a settembre. Già allora il taglio fu considerato eccessivo, dato che l’economia americana non segnalava alcun rallentamento apprezzabile e l’inflazione restava sopra il target. Il sospetto che si sia trattato di una mossa per rispondere a possibili sollecitazioni politiche in piena campagna elettorale esiste e non è un bene per la credibilità della politica monetaria.
Incertezza attorno alle politiche di Trump
Lo scenario geopolitico incerto non aiuta ad avere stime solide sui tassi americani anche a breve termine. Il 20 gennaio s’insedierà alla presidenza Donald Trump, che ha annunciato dazi sulle merci di Messico, Canada e soprattutto Cina. Su queste ultime sarebbero innalzato al 60%, anche se gli osservatori sostengono che alla fine saranno molto più bassi. In ogni caso, i dazi aumentano il costo delle importazioni per cui impattano anche sull’inflazione. Non sappiamo se le stime dell’istituto sull’inflazione incorporino già questo dato. Improbabile, visto che non è chiaro quale sarebbe il futuro livello dei dazi e ai danni di quali merci e da quando.
La forma della curva dei rendimenti americani è diventata nuovamente ripida dopo essersi invertita per oltre due anni. In sostanza, i rendimenti a 10 anni sono più alti dei rendimenti a 2 anni. Questo sarebbe un segnale tendenzialmente positivo, in quanto una curva invertita segnala tipicamente l’arrivo della recessione per l’economia americana. Tuttavia, la storia insegna che proprio in coincidenza con la recessione e/o del taglio dei tassi americani la curva ridiventa ripida. Nei fatti, non possiamo trarne un significato esplicitamente positivo. Invece, ciò potrebbe riflettere un aumento delle aspettative d’inflazione. E questo è avvenuto negli ultimi mesi. La media per i prossimi 5 anni negli Stati Uniti è salita da un minimo dell’1,86% toccato a settembre a circa il 2,40% attuale.
Sui tassi americani un pasticcio
Ed è probabile che questo segnale abbia tratto in inganno lo stesso Powell, che al momento di avviare il taglio dei tassi americani aveva dinnanzi a sé un’inflazione attesa per il medio-lungo periodo sotto il target e che subito dopo sarebbe risalita decisamente sopra di esso. Ora che il costo del denaro ufficiale non è più davanti alla curva, la Federal Reserve non avrebbe più alcuna fretta di continuare a tagliare. Probabile che la decisione di settembre sia arrivata per non frustrare eccessivamente il mercato ed evitare l’esplosione di tensioni finanziarie in piena campagna elettorale. Allo stesso tempo, però, le aspettative degli investitori erano state alimentate dalle stesse dichiarazioni degli alti funzionari dell’istituto. Qualcosa in estate sembra essere andato storto e ora ne stiamo pagando le conseguenze.