Investire sui mercati emergenti apre un mondo di opportunità, ma con diversi rischi

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Vi sarà capitato molte volte di avere sentito o letto dei cosiddetti “mercati emergenti”. L’espressione è ormai in uso da decenni per designare quelle economie in via di sviluppo, le cui potenzialità di crescita a medio-lungo termine appaiono robuste. Non è sinonima di Paesi poveri, come spesso siamo portati a credere. Resta innegabile, comunque, che si tratti di economie meno sviluppate di quelle avanzate come Nord America ed Europa, tanto per fare un confronto.

Mercati emergenti ormai realtà troppo grande per essere ignorata

Investire sui mercati emergenti o ipotizzare di farlo è diventato quasi un obbligo per chi ha a che fare quotidianamente con il mondo degli affari. Fondi d’investimento, ETF, banche d’affari, private banker, tutti sono costretti a confrontarsi con queste nuove realtà. E il motivo non è difficile da capire: le prospettive di rendimento appaiono ben superiori a quelle che generalmente scorgiamo sui mercati avanzati.

I mercati emergenti sono diventati popolari dopo la crisi finanziaria del 2008. Accadde che le banche centrali più grandi del pianeta furono costrette a imbarcarsi in stimoli monetari senza precedenti per scongiurare il rischio di un collasso delle rispettive economie e la conseguente depressione come negli anni Trenta del secolo scorso. Queste azioni portarono al crollo dei rendimenti obbligazionari e all’esplosione dei prezzi azionari. Gli investitori notarono scarse possibilità di guadagno sui grandi mercati e furono costretti a guardarsi attorno.

Boom di investimenti dopo la crisi mondiale del 2008

Per i mercati emergenti si trattò di una grossa opportunità storica: attirando i capitali dal mondo ricco, governi, aziende e banche furono in grado di indebitarsi a costi relativamente bassi. D’altra parte, gli investitori ottennero rendimenti superiori a quelli che avrebbero maturato impiegando i capitali sui mercati avanzati. Lo stesso accadde sul fronte azionario. Le aziende con sede nei Paesi emergenti si mostrarono a maggiore potenzialità di crescita rispetto alle concorrenti occidentali, grazie allo sviluppo delle economie domestiche e alla globalizzazione. Quest’ultima ha consentito di espandersi vendendo merci nel resto del pianeta, facendo leva sul vantaggio competitivo legato ai minori costi di produzione.

Gli investimenti sui mercati emergenti sono sembrati a tutti gli effetti un’operazione “win-win”, cioè reciprocamente vantaggiosa. Tra l’altro, molti capitali sono stati impiegati in asset denominati in valute forti come il dollaro. Questo ha consentito di ridurre il rischio di cambio, visto che parliamo di valute generalmente soggette a volatilità e ad un tendenziale indebolimento nel tempo. Per fare un esempio, l’Egitto ha potuto indebitarsi per diverse decine di miliardi in dollari americani. Ha offerto di più dei titoli di stato USA, ma allo stesso tempo di meno di quanto avrebbe dovuto offrire emettendo debito nella valuta locale. Questa, essendo meno solida del dollaro, non avrebbe attirato la stessa fiducia degli investitori, i quali avrebbero preteso rendimenti più alti.

Grazie a questo trend, oggi i mercati emergenti non sono più una realtà marginale nel sistema economico, finanziario e persino geopolitico. Il loro Pil incide ormai per più della metà di quello mondiale e nell’ultimo decennio la loro crescita ha rappresentato i due terzi del totale. In pratica, l’economia mondiale è trainata proprio dai Paesi emergenti. Pur in deciso rallentamento, la Cina è cresciuta di appena meno del 5% all’anno nel quinquennio passato. Gli USA, che pure hanno fatto bene, si sono fermati a una media del 2,3%, meno della metà.

Non sempre un affare

Ma gli investimenti sono stati sempre un affare? L’indice MSCI Emerging Markets, che sintetizza l’andamento azionario sui mercati emergenti, negli ultimi 10 anni è cresciuto (in dollari) solamente dell’8,5%. Nello stesso periodo di tempo, l’indice S&P 500 a Wall Street ha segnato una crescita del 185%. Nel lungo periodo, quindi, emerge tutta la debolezza che ancora oggi esiste all’infuori dei mercati sviluppati. Le ragioni della pessima performance sono diverse. Da un lato borse come quella di Shanghai in Cina da anni deludono le attese. Dall’altro il problema è legato alle valute di denominazione degli asset, oggetto di deprezzamento o vera e propria svalutazione perseguita dai governi.

Rischi per gli investimenti

I rischi di investire sui mercati emergenti sono molteplici. Per prima cosa, bisogna fare attenzione alla capacità di queste economie di onorare il debito estero, cioè denominato in valute straniere. Infatti, se da un lato indebitarsi in dollari, euro, ecc., costa di meno, dall’altro i debitori si espongono alla volatilità dei tassi di cambio. In molti casi, le riserve valutarie sono scese a livelli così preoccupanti da generare una crisi della bilancia dei pagamenti. In estrema sintesi, ci sono pochi dollari a disposizione per restituire i prestiti contratti con gli investitori stranieri. In casi simili, si rende necessaria la svalutazione del cambio per cercare di attirare capitali, esportare di più ed importare di meno. Questa mossa aumenta, tuttavia, ulteriormente il peso del debito estero nei bilanci di stati, aziende e banche, innescando default a catena.

Altri rischi rendono gli investimenti sui mercati emergenti meno vantaggiosi di quanto certi rendimenti prospettano. Uno è legato proprio alla governance. La trasparenza scarseggia spesso tra le autorità pubbliche e persino tra i soggetti privati. La Cina nell’estate del 2015 reagì con misure draconiane alla crisi della borsa. Impedì i disinvestimenti dagli importi più cospicui e intrappolò per diverso tempo i capitali stranieri al suo interno per evitarne il deflusso. Fu uno shock per gli investitori, che fino a quel mondo sognavano che si trattasse ormai di un’economia sostanzialmente rispettosa dello stato di diritto con regole occidentali. Negli anni più recenti è toccato ai possessori di “criptovalute“, il cui trading è stato messo al bando insieme al “mining”.

Le tensioni geopolitiche sono un’altra costante in gran parte dei mercati emergenti. Basta guardare alla Russia di questi anni. Gli stessi dati forniti dalle statistiche ufficiali non sono sempre attendibili. Se i dubbi esistono con riferimento alla stessa Cina, nel decennio passato si registrò uno scontro tra Fondo Monetario Internazionale ed Argentina, specie con riferimento all’inflazione. Sono esempi di come gli investitori si espongano a rischi che sui mercati avanzati spesso consideriamo nulli o, comunque, molto contenuti, per quanto non inesistenti (vedi Grecia nel 2010). Non tutti i Paesi emergenti, poi, hanno avuto la saggezza di puntare sull’istruzione per accrescere la competitività e l’innovazione.

Mercati emergenti e il vantaggio demografico

Restano indubbie le potenzialità dei mercati emergenti al confronto di economie molto meno dinamiche come l’Europa, le quali hanno raggiunto un livello di maturità tale da non prospettare più tassi di crescita significanti. Un punto a favore dei primi si conferma la demografia, nota molto dolente per i mercati occidentali. L’abbondanza di manodopera giovane, oltre che a basso costo, consente la crescita della produzione, laddove da noi l’invecchiamento della popolazione costituisce un limite all’aumento della produttività, così come dei consumi. In conclusione, noi tendiamo ormai a produrre risparmi con cui alimentare i piani di sviluppo nel resto del mondo.

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