Bitcoin, la rivoluzione iniziata in sordina con il protocollo del misterioso Satoshi Nakamoto, ben 15 anni fa, oggi diventata fenomeno globale avente a che fare con finanza, sviluppo, economia, mercati, risparmio e come ovvio immancabili polemiche tra vecchio e nuovo mondo, fa sempre parlare di sé.
La recente cronaca crypto ha fatto comunque registrare alcuni fenomeni piuttosto palesi, che gettano una luce nuova sul mondo del satoshi e della percezione globale circa il suo ruolo — ovvero i suoi molteplici ruoli — nel mondo attuale e futuro.
Bitcoin e sua tendenza finanziaria
Il primo è certamente quello segnato dal “ripensamento” di decine e decine di commentatori della vecchia scuola economica, nonché di banche e grandi istituti finanziari altrettanto conosciuti per le loro posizioni sostanzialmente scettiche e reazionarie, che più o meno in coro hanno abbandonato le iniziali posizioni per abbracciare in tutto e per tutto — o almeno, apparentemente in tutto e per tutto — la filosofia dell’oro digitale decentralizzato.
Questo ripensamento ha avuto come abbastanza ovvio il suo culmine e punto di non ritorno nell’approvazione degli ormai celebri ETF su Bitcoin da parte di BlackRock, in assoluto il più blasonato istituto finanziario al mondo. Una scelta che, pur non essendo né la prima né l’ultima in senso cronologico, ha però aperto definitivamente le porte al concetto di “Bitcoin finanziario”, che mano a mano sembra aver blandamente scalfito l’istanza ribelle, libertaria e “cypherpunk” delle origini.
In altre parole, la natura “valoriale” di Bitcoin, che di fatto ha storicamente registrato conferme su conferme, sembra oggi essere paradossalmente il fattore che, per quanto vero e sacrosanto, fa storcere il naso a molti puristi, che vorrebbero il satoshi più impiegatop come mezzo di scambio monetario per creare e nutrire economie circolari, progetti di sviluppo, forme alternative di capitalizzazione aziendale e via discorrendo.
Le sempre più stringenti politiche in materia di controllo sul mondo crypto, estensione e intensificazione delle prassi di KYC e AML, legislazione nazionale e internazionale sugli operatori accreditati per trattarlo come cambiavalute e fornitori di servizi collaterali, hanno fatto evidentemente il resto. Col risultato finale di avere un Bitcoin che, per quanto molto usato e diffuso anche come strumento squisitamente monetario (basti pensare alle zone interessate da iperinflazione e ai paesi in via di sviluppo, che ad oggi lo considerano una vera e propria salvezza), sembra aver preso in molti casi quella che in molti potrebbero considerare “la via del nemico”, della tanto odiata politica delle banche centrali e dunque delle valute nazionali.
Le recenti dichiarazioni di Michael Saylor
Il mondo Bitcoin lo considera un mito, un eroe, un simbolo, per non dire un vero e proprio evangelista del verbo di Satoshi Nakamoto. Parliamo ovviamente di Michael Saylor, co-fondatore e presidente esecutivo di Microstrategy, la corporation che più di ogni altra ha deciso di fare propria la filosofia dell’oro digitale, utilizzandolo praticamente come propria bandiera e capitalizzando nel suo stato patrimoniale una cifra di BTC pari a oltre 250 mila unità.
Dopo le recenti dichiarazioni rilasciate durante un’intervista col giornalista Madison Reidy, tuttavia, in riferimento alle sue considerazioni in materia di auto-custodia Saylor deve aver perso certamente molti punti relativi a questo suo primato, che fino a pochissimo tempo fa si accompagnava a costanti inviti nei raduni più importanti frequentati dai bitcoiner internazionali.
Interrogato infatti sull’importanza di detenere autonomamente le chiavi private dei wallet Bitcoin, al fine di minimizzare qualsiasi rischio di perder i propri fondi, la sua reazione è andata ben oltre la legittima difesa dell’estrema sicurezza di exchange e fornitori di servizi di tipo custodial.
Con un discorso in effetti abbastanza vago e basato su correlazioni piuttosto difficili da comprendere, ha a sorpresa attaccato proprio la comunità originaria di Bitcoin, definita come novero di “criptoanarchici” affetti dalla continua paranoia riguardo a possibili eventi di sequestro di bitcoin da parte di soggetti istituzionalmente deputati alla custodia. Saylor ha detto inoltre che erano proprio loro, cioè il “cryptoanarchici paranoici”, a poter incentivare una misura di sequestro a causa della loro mancanza di conformità con le regole governative mentre esercitavano l’autocustodia.
Testualmente:
Penso che quando i satoshi sono detenuti da un gruppo di criptoanarchici che non sono entità regolamentate, che non riconoscono il governo o non riconoscono le tasse o non riconoscono i requisiti di rendicontazione, ciò aumenta il rischio di sequestro.
Saylor ha poi ribadito il concetto affermando che quando la custodia è fornita da soggetti regolamentati, come Blackrock o JPMorgan, questo rischio di sequestro è addirittura minore rispetto ai casi comuni, dato che anche legislatori e politici sono clienti medesime piattaforme.
Come prevedibile, l’uscita ha generato un vespaio di polemiche, non tanto per le affermazioni circa gli standard di sicurezza dei soggetti istituzionali citati, così come di qualsiasi altro exchange regolamentato e in linea con la severa normativa in termini di custodia crypto, quanto per l’attacco indiretto a chiunque, legittimamente, intenda custodire i propri fondi cryptovalutari in un altrettanto legittimo wallet non-custodial.
Ora, risulta evidente quanto un investitore come Michael Saylor, come ovvio agente in nome e per conto di un colosso tecnologico come Microstrategy, non possa assolutamente permettersi il lusso di conservare una ricchezza cryptografica pari a quella citata in un wallet a suo esclusivo uso e consumo: le conseguenze in termini banalmente legali, nonché al cospetto di colleghi, investitori e portatori di interessi, sarebbero incalcolabilmente negative, oltre che affidate a un senso di fiducia che evidentemente non può assolutamente essere preteso verso un qualsiasi essere umano in grado di manovrare una tale ricchezza senza risponderne.
Tuttavia l’equazione opposta, ventilata dall’aver indirettamente equiparato un comune cittadino desideroso di conservare al sicuro i propri risparmi a un “cryptoanarchico paranoico”, che per giunta intende in quanto tale evadere il fisco e rinnegare governi, deve essere sembrata piuttosto campata in aria, oltre che offensiva nei confronti di tutta una corrente che dai movimenti di emancipazione cypherpunk ha portato non solo a Satoshi Nakamoto, ma anche a Julian Assange.
In risposta, il podcaster Vlad Costea ha detto che Saylor ha banalmente sputato sul piatto dove mangiava, ovvero ha ridicolizzato quella stessa comunità che neanche tanto indirettamente aveva contribuito a costruire il suo stesso status e la sua stessa ricchezza. Altri esponenti noti nella cryptosfera, tra cui John Carvalho (CEO di Synonym) e Samson Mow (CEO di Jan3), hanno avanzato a Saylor analoghe critiche, sottolineando il suo voltafaccia, e di fatto alimentando alcune dicerie secondo le quali dietro la colossale capitalizzazione in satoshi di Microstrategy ci sarebbe la volontà di trasformare l’azienda in una CryptoBank, orientata a erogare prestiti garantiti da crypto e affini servizi.
Noi non ci permettiamo assolutamente di giudicare Michael Saylor, che molto probabilmente andrà a contestualizzare meglio la sua opinione di fronte alla comunità. La faccenda, per quanto confinata a uno dei tantissimi battibecchi tra il classico personaggio che ha cavalcato una certa comunità, e che all’apice del successo la rinnega, incassando da quella stessa comunità appellativi come ingrato, incoerente o addirittura traditore, evidenzia però con forza ancora maggiore l’affiorare del dualismo di cui alle prime battute di questo articolo: Bitcoin è valore per il capitalista del futuro, o e moneta per l’anarchico libertario?
Cosa prevale, ovvero cosa dovrebbe prevalere in Bitcoin? L’uso come moneta intesa come mezzo di scambio o il valore intrinseco stivato in una cassaforte digitale di Zugo o Lugano? Il trading a scopo puramente speculativo o l’impiego per cambiare il mondo? La privacy o la custodia nei forzieri di quello stesso Sistema che vuole il controllo, l’ordine e la disciplina? Le economie circolari per dare una mano ai paesi poveri e in via di sviluppo, oppure i fondi d’investimento del supermanager che, seduto sul divano della sua villa a Miami, scorre tra i suoi indici di portafoglio, comprendenti oro fisico, azioni hi-tech e Bitcoin?
Posto che una risposta del tutto esauriente a questi interrogativi non è possibile, essendo che in generale il denaro è appannaggio dell’essere umano che lo impiega, ed è stato utilizzato per cose immonde anche ben prima della fine del Gold Standard, e specularmente continuerà ad essere usato per iniziative assolutamente nobili ed encomiabili anche se riferito a dollari, euro o sterline, ossia fiat money del tutto inadatta a conservare il valore nel tempo, giova impostare il punto della situazione e le varie prospettive da qui al futuro evidenziando l’importanza di una domanda di base: cos’è Bitcoin e per cosa è stato progettato?
Bitcoin, questo sconosciuto
Tutti parlano di Bitcoin, ma in pochi si chiedono effettivamente cosa sia. Chi lo usa, però, sa benissimo di cosa stiamo parlando. Lo sa non perché lo sappia sul serio, ma perché il suo sapere si concentra sull’utilizzo che ne sta facendo.
In origine, Bitcoin nasce come scommessa di una moneta decentralizzata, interamente digitale e appoggiata sull’ormai uniforme cablatura di rete planetaria, basata su di un’architettura deflativa destinata a transazioni peer to peer, ovvero senza intermediari.
L’appellativo “fenomenologico” che lo attesta come “oro digitale” è quindi, ancora oggi, il migliore in assoluto, in quanto sintetizza tutte le caratteristiche intrinseche di Bitcoin — essere come ovvio peer to peer, come un banale lingotto o moneta d’oro usati come mezzo di scambio, ed essere deflativo, appunto come il medesimo metallo prezioso — e nel contempo denota la sua volontà di essere moneta.
In altre parole, Bitcoin possiede in tutto e per tutto il “titolo accademico” di moneta, cioè di entità avente le ben note tre caratteristiche: mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore. Il problema puramente occidentale è che Bitcoin, pur avendo in tasca la “laurea di moneta perfetta”, è riuscito a trovare lavoro solo parzialmente come “moneta”, e oggi viene per ragioni del tutto congiunturali, specie in Occidente (dove gli effetti dell’inflazione sono pesanti, ma non distruttivi, e dove i controllo da parte del Grande Fratello è comunque commisurato a una certa dosa di benessere consegnato ai cittadini in forma di servizi e comodità), preferito come sola riserva di valore.
Per quanto rivoluzionario, Bitcoin è stato immesso in una società dove la sua azione poteva essere solo ibridata con la finanza classica, come ovvio preesistente e operativa, e le altrettanto classiche politiche monetarie a base fiat money. Pertanto sarebbe stato altrettanto ragionevole immaginare una reazione altrettanto ibrida dei mercati, delle giurisdizioni e — non da ultimo — dei profili concreti di utilizzo da parte degli utenti.
Ecco dunque che una discussione definitiva e seria su Bitcoin non può continuare a proporre le solite diatribe tra finanza e anarchia, istituti bancari e utenti convintamente unbanked, controllo totale e anonimato totale, centralizzazione e decentralizzazione, custodial e non-custodial. La sola e vera discussione che possiamo impostare su Bitcoin ha a che fare con tutto quello che oggi possiamo fare con questo straordinario strumento, interpretando di volta in volta le nostre specifiche e uniche esigenze.
Acquistare e detenere BTC
La prima e più semplice opzione è, molto banalmente, quella di comprare Bitcoin da exchange autorizzati e di tenerlo, esattamente come si farebbe con qualsiasi altro asset ritenuto pregevole come forma di semplice risparmio.
Conti alla mano, parlando di Bitcoin non esiste storicamente alcun caso in cui un cosiddetto PAC (Piano di Accumulo Costante, vale a dire la destinazione di un certo ammontare di moneta fiat periodicamente tramutata in BTC, indipendentemente dal tasso di cambio) sia stato condotto per un congruo periodo, a cadenza regolare, senza registrare un effettivo guadagno finale.
La caratteristica principale di un PAC Bitcoin è che siamo anni luce lontani dai complessi calcoli che deve affrontare un trader professionista, che affronta il mercato con volumi di compravendita e relativi rischi incredibilmente più elevati. Il PAC è comodo, semplice, e può essere tranquillamente impostato in automatico come abitudine al risparmio, orientata a un asset che si è dimostrato — non siamo noi a dirlo, ma i fatti — esattamente paragonabile all’oro.
Nonostante le recenti polemiche in materia di imposizione fiscale, peraltro, c’è da dire che qualunque sia la sua aliquota, essa agisce comunque solo per la parte evidenziata come plusvalenza, quindi non inficia assolutamente la presenza di un guadagno. Questo significa che, anche in caso di cashout complessivo motivato da plusvalenza, l’utente resta comunque in attivo.
Se poi l’utente ha solo intenzione di capitalizzarsi a lungo termine, il mercato offre numerosi prodotti “a collaterale crypto”, che possono essere scelti sulla base delle proprie esigenze.
Spendere nativamente BTC
Affrontiamo ora l’aspetto monetario. Sono ormai decine di migliaia gli esercenti, le aziende, i portali e i sistemi di pagamento che accettano nativamente Bitcoin. Quella della spesa dei BTC è diventata ormai una prassi, che molto efficacemente consente di usufruire delle rivalutazioni anche subitanee e a breve termine susseguenti alle oscillazioni del mercato crypto per tramutare un surplus di potere d’acquisto in beni e servizi.
Città come Dubai e Lugano stanno da tempo investendo in questo settore, incentivando catene commerciali, negozi, alberghi ed esercenti ad accettare nativamente satoshi. La tendenza è però in rapido sviluppo anche nelle maggiori città europee, e si sta rapidamente diffondendo ovunque, anche in Italia.
Oltre alla spesa nativa peer to peer nel territorio sono attive decine di proposte che permettono di acquistare direttamente online una quantità esorbitante di item eterogenei: schede carburante, buoni regalo, biglietti per il trasporto pubblico e privato, ristoranti e food delivery, credito telefonico, e-Sim per comunicazione web mobile e domotica, supermercati e GDO, gioielleria, viaggi e chi più ne ha più ne metta.
In altri termini, un uso intelligente del proprio “gruzzoletto” di BTC può rivelarsi estremamente interessante anche nel caso l’utente voglia divertirsi a spenderli, sfruttando il canale nativo per le ragioni a lui più congeniali: anonimato, privacy, sconti particolari per acquisti in crypto, etc…
Mining e soluzioni alternative
L’attività di mining è sempre possibile, e, a seconda delle dotazioni hardware a disposizione del singolo, rappresenta certamente una partecipazione molto interessante al grande progetto di Nakamoto, nonché, come ovvio, anche una fonte di reddito. Il solo ostacolo è rappresentato dall’investimento appunto infrastrutturale, tendenzialmente piuttosto costoso e assoggettato a una costante manutenzione, senza parlare dei tecnicismi che porta con sé.
Tuttavia le tecnologie oggi associate alla token economy e all’automazione via smart contract connessi al mondo reale (in questo caso, macchine dedicate al mining) consentono anche al neofita di acquistare potenza di calcolo e minare Bitcoin attraverso soluzioni cloud, estremamente flessibili e interessanti. In questo modo anche un “non miner” può comunque partecipare attivamente ai “dividendi” della messa in sicurezza della rete senza dover esborsare patrimoni in accessori hardware per i quali peraltro, come ovvio, si rende necessaria anche una conoscenza ed esperienza tecnica pregressa.
Questa modalità illustra eloquentemente quanto il mondo del satoshi sia in realtà connesso anche ad altri mondi paralleli, come per esempio quello della cosiddetta DeFi e dei network alternativi che oggi veicolano centinaia e centinaia di applicativi di stampo blockchain. Una tendenza peraltro in fortissima crescita.
Conclusioni
Che si voglia semplicemente risparmiare, o guadagnare, o spendere in sicurezza, o garantirsi una sfera di legittimo anonimato e di privacy, Bitcoin ha la soluzione giusta, e ce l’ha oggi, senza l’obbligo di attendere chissà che fulgido e inarrivabile futuro. Ma non si tratta di una soluzione minacciata necessariamente da interventi del legislatore o da inadeguatezze del mondo circostante. Qualsiasi persona, indipendentemente dal reddito, può in qualche modo migliorare la propria vita grazie a Bitcoin. Il fatto che tale tecnologia si stia espandendo a macchia d’olio proprio nei paesi in via di sviluppo deve farci riflettere sul fatto che la natura di Bitcoin è necessariamente multiforme, e interviene a risolvere problemi a seconda di come viene applicato.
La grande disputa tra custodial e non-custodial, ossia tra soluzioni “mediate” da soggetti terzi e speculari soluzioni del tutto puriste e native è in realtà un falso problema, in quanto viene troppo spesso posto come scelta più vicina al credo religioso che all’effettivo calcolo razionale di costi e benefici. Nella realtà, l’utente intelligente ed esperto — ovvero quello opportunamente formato per esserlo — gestirà le sue crypto attività, minuscole o gigantesche che siano, attraverso un intelligente e razionale compromesso. Appunto, come detto, un compromesso che tenga conto della realtà necessariamente “ibrida” in cui viviamo.
In sintesi, non è e non sarà la realtà a fermare Bitcoin o a ingabbiarlo in recinti per neutralizzarne la portata rivoluzionaria. Al contrario, è Bitcoin che già oggi entra nella realtà, qualunque essa sia, per migliorarla. O come diciamo spesso noi più sinteticamente: Bitcoin fixes this…
Filippo Albertin