Credit Default Swaps (CDS), ecco cosa sono e perché non tutti possono acquistarli

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E’ un acronimo di soltanto tre lettere, ma a volte può fare la differenza tra perdere un capitale e metterlo in salvo. I CDS stanno letteralmente per Credit Default Swaps e negli ultimi quindici anni si sono diffusi in tutto il mondo, sebbene siano ancora in pochi a conoscerli all’infuori della ristretta cerchia degli investitori. Si tratta di titoli che assicurano un debito dal rischio che si verifichi un evento creditizio. Esso può essere costituito da obbligazioni private (societarie o bancarie) o titoli di stato. Gli emittenti sono generalmente grandi banche d’affari internazionali, che non hanno a che vedere sostanzialmente nulla con i soggetti debitori, definiti in gergo “reference entities”.

Come funzionano i CDS

Come funzionano di preciso questi CDS? Un soggetto finanziario li emette per coprire il rischio di credito di un asset sottostante. L’investitore che li acquista, si copre dal rischio di default del soggetto che ha emesso il debito. Chiaramente, quanto più alto è tale rischio, tanto più costoso diventa coprirsi da esso. E questo è logico, trattandosi a tutti gli effetti di una polizza di assicurazione. Sappiamo nel nostro piccolo che una Rc Auto costa di più nelle aree in cui si verificano maggiori incidenti, così come la polizza contro il furto è più alta dove si registrano maggiori denunce di furto.

Dunque, l’investitore che ha acquistato un certo titolo del debito, può assicurarsi contro il rischio di credito. Attenzione: formalmente, possono acquistare CDS anche gli investitori che non posseggono il titolo sottostante garantito. In effetti, questi strumenti finanziari si prestano per operazioni anche puramente speculative. La durata della garanzia è generalmente di cinque anni, anche se il contratto può nello specifico prevedere altri orizzonti temporali. L’investitore è tenuto a versare all’emittente del CDS una somma, in funzione percentuale del valore nozionale del sottostante garantito anno dopo anno fino alla scadenza del contratto.

Facciamo un esempio: l’investitore Alfa acquista dalla Banca X il CDS a 5 anni per tutelare contro il rischio default di un dato titolo del debito emesso dalla Repubblica Italiana. Immaginiamo che il costo sia di 60 punti base. Poiché ogni punto base equivale allo 0,01%, esso corrisponde allo 0,60% del capitale nominale. Supponendo che esso fosse di 50 milioni di euro, la garanzia costerebbe 300.000 euro ogni anno per cinque anni, per cui 1.500.000 euro in tutto. Se nel periodo considerato non si verificasse alcun evento creditizio avverso, possiamo affermare che per l’investitore il pagamento sia stato in un certo senso uno spreco di denaro. In realtà, è come quando si paga una polizza contro il furto dell’auto e, per fortuna, l’evento tutelato non si verifica.

Strumenti popolari dopo crisi mutui subprime

Invece, se l’evento creditizio scattasse, l’investitore metterebbe in salvo il proprio capitale. Chi stabilisce se l’evento tutelato si sia verificato o meno? Il contratto prevede la nomina di un “calculation agent” per la determinazione del “restructuring clause”, cioè un soggetto terzo che stabilisce se la clausola di ristrutturazione indicata sia scattata. Se sì, il capitale dell’investitore sarà pagato. Questi non perderà nulla. I contratti sono standardizzati dall’ISDA (International Swaps and Derivatives Association), l’associazione che sin dal 1985 raggruppa i soggetti privati che emettono titoli derivati.

I CDS sono diventati popolari sui mercati dopo la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti del 2008. Nel decennio passato, una pellicola di Adam McKay dal titolo “The Big Short” (“La Grande Scommessa”) venne girata a proposito del caso che riguardò Michael Burry, il manager di un hedge fund divenuto ricco speculando proprio su questi titoli. In tempi non sospetti, quando nessuno immaginava che le banche americane sarebbero andate in sofferenza a causa dei mutui di scarsa qualità erogati alla clientela, questi ne acquistò i CDS a copertura del rischio di credito delle obbligazioni emesse. Il loro costo era molto basso, in quanto il rischio era considerato praticamente inesistente. Quando iniziarono i primi scricchiolii del sistema bancario già nel 2007, il mercato corse a ripararsi contro il rischio acquistando CDS, il cui costo esplose. Il meglio per Burry avvenne con il crac di Lehman Brothers nel settembre del 2008. Egli poté rivendere questi titoli a prezzi notevolmente superiori a quelli di acquisto, maturando enormi plusvalenze.

Strumenti anche speculativi

Questo caso dimostra che i CDS possono essere utilizzati nella pratica come strumenti speculativi. Burry non aveva in portafoglio obbligazioni bancarie dalle quali tutelarsi, ma al tempo stesso ne acquistò i titoli “assicurativi”. Il mercato da allora monitora con maggiore attenzione i prezzi per capire se la domanda sia relativamente elevata ed eventualmente in crescita per tutelarsi contro il rischio di un determinato debito. Ad esempio, i CDS a 5 anni per i titoli di stato italiani esplosero tra il 2011 e il 2012, a seguito della crisi del debito pubblico che ci riguardò molto da vicino.

Ci sono pro e contro da non ignorare. Anzitutto, i CDS non sono realmente alla portata di tutti. Il valore nozionale minimo da garantire è di 10 milioni di euro. Ciò esclude automaticamente tutti gli investitori individuali, ragione per cui si tratta di un mercato aperto nei fatti ai soli investitori istituzionali. Altro aspetto da non sottovalutare riguarda una certa opacità delle clausole. Il caso esemplare si ebbe nel maggio del 2012, quando la Grecia ristrutturò il suo debito con un taglio del capitale nominale del 53,5%. Gli investitori privati persero in tutto 107 miliardi di euro. Tuttavia, l’Unione Europea orchestrò il caso in modo da evitare che formalmente scattasse il default. L’operazione venne ritenuta in via ufficiale un accordo tra le parti. I titolari dei CDS a protezione dei titoli di stato ellenici non riuscirono ad ottenere alcun indennizzo delle perdite patite e si sentirono presi in giro. Non è un caso che il mercato abbia iniziato a investire in Bitcoin con convinzione proprio in quella fase.

Rischi da CDS

Infine, i CDS sono negoziati “over the counter”, vale a dire all’infuori dei mercati non regolamentati. Questo significa che gli scambi possono essere pochi nell’unità di tempo. La scarsa liquidità può provocare ampie oscillazioni di prezzo nel momento in cui si registrasse una qualche tensione o, al contrario, se questa venisse meno. Può diventare difficile rivendere i CDS a terzi prima della scadenza. E bastano anche poche compravendite per inviare al mercato messaggi che non sempre riflettono i fondamentali, ma che finiscono per influenzare il giudizio assegnato agli asset.

Altro aspetto riguarda l’interazione tra questi titoli e i sottostanti. Il rendimento dei secondi risente del grado di rischio percepito dal mercato. Più sono alti e maggiori tendono ad essere ovviamente anche i prezzi dei CDS. Poiché questi comportano il sostenimento di un costo, il mercato pretende altresì rendimenti più alti per i sottostanti tutelati. Ad esempio, se i CDS contro il rischio di default per i Bund tedeschi costano 50 punti base in meno di quelli che assicurano i Btp, il mercato pretenderà certamente che i secondi offrano almeno un rendimento dello 0,50% superiore ai primi. A causa della speculazione a cui sono soggette le negoziazioni, come sopra riportato, quindi, c’è il rischio a volte che questi strumenti agiscano da diffusori di panico. Ed è il contrario delle ragioni per cui sono nati.

 

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