Un investitore che ha a che fare con i mercati finanziari, anche eventualmente per piccole operazioni sporadiche di compravendita di asset, si sarà quasi certamente imbattuto nell’espressione “rapporto Prezzo/Utili”. Spesso, la si trova nella terminologia inglese Price/Earning ratio. Poco importa, la sostanza è la stessa. E’ una delle metriche fondamentali per valutare il grado di rischio di un investimento azionario, anche se bisogna avere chiari alcuni concetti basilari per evitare di prendere un abbaglio.
Prezzo/Utili, come si calcola
Il rapporto Prezzo/Utili vede al numeratore il prezzo corrente di un titolo azionario e al denominatore l’utile netto per azione. In alternativa, abbiamo al numeratore il valore di capitalizzazione di una società quotata in borsa e al denominatore gli utili netti. Qual è la differenza tra i due rapporti? Nel primo caso, i valori (quotazione e utile) sono per ciascuna azione. Nel secondo caso, si guarda al valore di borsa dell’intera società e all’utile maturato da essa. Non cambia nulla, visto che la capitalizzazione non è altro che la moltiplicazione del prezzo di borsa per il totale delle azioni emesse da una società. E l’utile per azione si ottiene dividendo l’utile complessivo per il numero delle azioni emesse.
Sembra tutto facile, ma le cose si complicano appena scendiamo nei dettagli. Per prima cosa, quali utili? E qui già si pone un primo problema. Possiamo fare riferimento all’ultimo bilancio di esercizio approvato. Nulla di più apparentemente fondato, trattandosi di numeri certificati dagli organi di vigilanza e approvati dagli stessi azionisti. Il guaio è che gli utili di un esercizio passato potrebbero dirci poco dell’attuale situazione in borsa di un titolo. Immaginate di dover valutare il rapporto Prezzo/Utili nel mese di dicembre di un dato anno. Dovreste fare riferimento ai profitti societari di un periodo che va da 23 fino a 12 mesi prima. Nel frattempo, la quotazione del titolo in borsa può aver subito tali e tante variazioni da non riflettere più apparentemente quegli utili.
Ed ecco spuntare una misura più appropriata: il Prezzo/Utili legato agli ultimi quattro trimestri. In gergo, si definisce “Trailing Price/Earning”. Questa metrica inizia già ad avere più senso. I risultati di un trimestre li conosciamo a distanza di poche settimane dalla sua conclusione. Questo ci consente di avere una misurazione più aggiornata. Ma neanche in questo caso la soddisfazione può dirsi completa. L’evoluzione finanziaria di una società può essere molto veloce e tale da rendere poco idoneo guardare all’anno appena trascorso. Ecco la ragione per cui spesso si fa riferimento al “Forward Price/Earning”. Di cosa si tratta? Del rapporto tra prezzo delle azioni e utili attesi per i successivi 12 mesi.
Problema risolto? Manco per niente. Mentre il Prezzo/Utili rapportato al passato fornisce indicazioni basate su dati certi, per quanto non aggiornatissimi, le stime sui profitti futuri sono per loro natura incerte. Nessuno ha la sfera di cristallo per stabilire quanto alto sarà il profitto di una società quotata. Si possono fare supposizioni, ma che si scontreranno sempre con una realtà di mercato per sua natura dinamica e mai priva di imprevisti.
Cosa rappresenta questa metrica
Fatta questa lunga premessa, chiediamoci cos’è il rapporto Prezzo/Utili. Essa ci segnala qual è la valutazione del mercato con riferimento alla capacità di una società di generare reddito positivo. In altre parole, ci indica quanti anni ci servono tendenzialmente per ripagarci l’investimento. Nella realtà, non è propriamente così, dato che quasi mai una società distribuisce il 100% dei profitti generati. Il dividendo è generalmente una frazione o payout dell’intero utile maturato in un dato periodo di tempo. Questo significa che gli anni necessari per ripagare il capitale investito grazie ai dividendi incassati possono essere anche molto superiori al risultato del rapporto.
Esempio di azioni in borsa
In ogni caso, il Prezzo/Utili ci serve per capire se un’azione sia sopra- o sottovalutata. Come si fa? Non esistono risultati scolpiti sulla roccia a cui bisogna tendere. Tuttavia, si può guardare al rapporto medio delle società concorrenti e capire se quello dell’azione analizzata sia più o meno alto e per quali ragioni. Ad esempio, le società A, B e C sono concorrenti sul mercato italiano e tutte e tre risultano quotate in borsa. Il Prezzo/Utili di A è 10, di B è 13 e di C è 15. Supponendo che volessimo comprare le azioni di C, notiamo che siano relativamente più care di A e B. Dovremmo pagare di più, in relazione agli utili passati o attesi nel futuro prossimo. Viceversa, le azioni di A risultano le più economiche.
Attenzione, perché può accadere che in valore assoluto le azioni A siano le più care e di C le meno care. Ad esempio, le prime hanno un prezzo di mercato di 30 euro e le seconde di 20 euro, mentre le azioni B costano per ipotesi 26 euro. Com’è possibile questa discrepanza con i rispettivi rapporti Prezzo/Utili? Per la semplice ragione che A ha utili pari a 3, B a 2 e C a soli 1,33. Dunque, le azioni che all’apparenza ci sembrerebbero più care, in base ai fondamentali sono le più economiche e viceversa.
Rischi da analisi superficiale
In base a quanto abbiamo detto, dovremmo aspettarci di investire in azioni con un rapporto Prezzo/Utili quanto più basso possibile, mentre dovremmo lasciare perdere quelle con rapporti elevati. A parte che il valore medio di tali rapporti varia da settore a settore e anche da borsa a borsa, il punto è capire perché alcuni titoli siano più apprezzati di altri. Ci sono società ad alto potenziale di crescita, come le realtà attive nell’high-tech, tra cui spiccano in questi anni colossi come NVIDIA. E’ naturale che abbiano un rapporto molto elevato, che può superare cifre stellari come 1.000 o anche più. Questo è dovuto al fatto che il mercato scommette sulla loro crescita futura, cioè è consapevole o fiuta che siano capaci di generare reddito in misura persino esponenziale. Nei primi anni di vita, le società sono gravate dal peso degli investimenti e devono altresì farsi spazio sul mercato, specialmente se questo è innovativo. Ma quando saranno cresciute abbastanza, magari acquisendo posizioni di leadership, i profitti possono diventare stratosferici. Un esempio di scuola può essere dato da Amazon, che ha dovuto chiudere parecchi bilanci in perdita prima di diventare quello che tutti noi al mondo sappiamo essere.
Ci può anche essere la tentazione, a posteriori rivelatasi sbagliata, di puntare solo su azioni con un rapporto Prezzo/Utili basso, pensando che abbiano un alto potenziale di crescita, essendo apparentemente sottovalutate. Invece, può accadere che siano sottovalutate per la semplice ragione che il mercato ci abbia visto giusto. Alcune società non riescono a generare profitti soddisfacenti e in futuro potrebbero andare persino peggio. Dunque, investire sulla base solamente di questa metrica può diventare fuorviante, per non dire un boomerang. Teniamo anche conto che i profitti mutano anche repentinamente di trimestre in trimestre, esponendo il suddetto rapporto a una certa volatilità.
Prezzo/Utili applicato anche agli indici di borsa
Dobbiamo sapere che il rapporto Prezzo/Utili si calcola non solamente per le singole azioni, ma anche per interi indici (S&P 500, FTSE MIB, FTSE 100, Dax 30, Cac 40, ecc.). Anche in questo caso, le differenze anche estreme tra indice e indice non riflettono solamente possibili sotto- e sopravvalutazioni del mercato. Ci sono borse come quella americana, in cui la capitalizzazione media in rapporto ai profitti tende ad essere maggiore che altrove, specie in Europa. Le cause sono molteplici, tra cui maggiore liquidità, dinamismo dell’economia, capacità delle imprese di accedere al credito più facilmente e a costi inferiori, minori rischi geopolitici, ecc.
Infine, il rapporto Prezzo/Utili può fornire indicazioni non appropriate sulla reale capacità di una società di generare profitti. Questi sono il frutto spesso di operazioni straordinarie, come la cessione di asset, rami d’azienda, ecc. Poiché per loro natura non si ripeteranno in futuro, se non sporadicamente, poco ci dicono su quale sia realmente il livello dei profitti che dobbiamo attenderci. Ecco perché esistono metriche alternative o complementari, che ci forniscono un quadro d’insieme più realistico. Una di questa è l’Enterprise Value/Ebit ratio. In breve, al denominatore troviamo non più l’utile netto, bensì il reddito caratteristico, cioè al netto di ammortamenti, svalutazioni e accantonamenti. E al numeratore compare la capitalizzazione, comprensiva dei debiti societari.