Perché le materie prime le compriamo in dollari e cosa comporta per le economie mondiali

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Dall’oro al petrolio, dal rame al cottone, dal cacao al caffè e arrivando fino alle crypto, è lunghissimo l’elenco delle materie prime che quotidianamente scambiano sui mercati in dollari. Quasi non ci facciamo più neanche caso, ma gran parte delle merci di cui abbiamo bisogno in qualità di fattori produttivi o anche come derrate alimentari, materiali per le costruzioni e beni rifugio la paghiamo nella divisa americana. Molti di noi seguono ogni giorno le quotazioni del Brent, cioè del prezzo del greggio estratto nel Nord Europa, così come quello dell’oro sul mercato di Londra. E notiamo che esse sono espresse in dollari, anche se per comodità spesso possiamo godere della visualizzazione in euro.  Vi siete mai chiesti perché?

Materie prime in dollari, ecco perché

Sarebbe naturale immaginare che le materie prime vengano pagate in dollari quando di mezzo ci sono gli Stati Uniti o come fornitore o in qualità di acquirente. In verità, i pagamenti avvengono in dollari anche quando gli Stati Uniti non c’entrano nulla con il bene scambiato. Ad esempio, la compagnia petrolifera dell’Arabia Saudita vende greggio a una società italiana. O il cacao raccolto nel Ghana è venduto in Europa. Possiamo continuare e trovare sempre o quasi che l’interscambio viene regolato nella divisa americana, che è estranea sia a chi vende e sia a chi paga.

Tutto ciò ha a che vedere con il concetto di valuta di riserva mondiale. Il dollaro lo è da oltre un secolo. Non esiste una legge scritta per cui gli scambi debbano avvenire tramite di esso, ma nei fatti è accettato universalmente. E pensate che ciò avviene anche quando di mezzo ci sono stati “nemici” dell’America, che non sono pochi in giro per il mondo. Anzi, paradossalmente risulta che siano proprio queste le economie che meno riescono a rinunciare al biglietto verde. Molti di loro sono produttori di materie prime e hanno un gran bisogno di valuta americana.

Dollaro valuta liquida e stabile

Valuta di riserva significa per l’appunto che tutti gli stati ne detengono almeno un po’ per regolare gli scambi commerciali e finanziari. Perché proprio il dollaro? Ad oggi non c’è alcun dubbio che gli Stati Uniti siano una superpotenza economica, militare e tecnologica senza eguali nel mondo. Questa è la premessa che rende la sua moneta apprezzata ovunque e nel tempo, godendo di forte stabilità sul mercato dei cambi e riflettendo una solidità finanziaria invidiabile, oltre che istituzioni solide, democratiche e una società libera e aperta. Il discorso sarebbe complesso, ma fatto sta che su un mercato forex stimato in 7.500 miliardi di dollari di transazioni quotidiane, il dollaro compare come controparte nell’88% dei casi per un controvalore di ben 6.600 miliardi.

Grazie a queste sue caratteristiche, il dollaro vanta un grado di liquidità che nessuna valuta concorrente possiede al mondo, neppure l’euro. In soldoni, c’è sempre la garanzia che vi sia un acquirente o un venditore di valuta americana. Questo aspetto arreca grossi benefici ai titoli di stato emessi dal governo USA, che non sono altro che debiti facilmente convertibili in dollari. Ma se è indubbio che tutto questo sia nel complesso positivo per la superpotenza, cosa dire delle altre economie, costrette a comprare le materie prime in una divisa non loro?

Accordo strategico sul petrolio negli anni ’70

Prima di rispondere, vale la pena capire cosa accadde agli inizi degli anni Settanta. L’amministrazione Nixon dichiarò che non avrebbe più garantito la conversione del dollaro in oro, com’era stato pattuito tra le potenze occidentali nel 1944 a Bretton Woods. La divisa americana rischiò una crisi di fiducia. Era il 1971, ma poco ci pensò l’allora segretario di Stato, Henry Kissinger, a rimediare al potenziale caos. Organizzò un incontro tra il presidente e il re Faisal in Arabia Saudita. I due concordarono quanto segue: il regno avrebbe accettato pagamenti solamente in dollari per le sue esportazioni di petrolio, ricevendo in cambio protezione militare degli americani nel turbolento Medio Oriente.

Poiché l’Arabia Saudita era ed è ancora oggi principale esportatrice di greggio nel mondo, quell’operazione divenne un riferimento per tutti gli altri produttori, rendendo di fatto il dollaro la valuta di scambio per una delle più richieste materie prime. L’America se ne avvantaggiò. Grazie a questo accordo, la domanda di dollari rimase alta e, anzi, crebbe nel tempo. Non solo non vi fu alcuna crisi di credibilità per la sua valuta, ma addirittura Washington poté permettersi ciò che gli altri governi non poterono e non possono neanche oggi fare senza incorrere in una sanzione del mercato: indebitarsi a basso costo praticamente a tempo indefinito.

Economie esposte al rischio di cambio

Le conseguenze per le economie costrette a importare materie prime, come nel complesso l’Europa, possono essere diverse. Per prima cosa, esse si espongono al rischio di cambio. Se il dollaro si rafforza contro l’euro, automaticamente tutti i beni che paghiamo in valuta americana rincarano. Ciò porta sul piano globale a una conseguenza molto nota: la correlazione negativa tra prezzi delle materie prime e dollaro. Non è qualcosa che accade sempre, ma tendenzialmente è così. Dollaro su/giù e materie prime giù/su.

Detto in maniera differente, la politica monetaria della Federal Reserve finisce per impattare direttamente sulle materie prime. Se restrittiva (tassi in rialzo), ne deprime i prezzi. Se espansiva (tassi in calo), li sostiene. Gli effetti possono apparire neutrali, dato che il rafforzamento/indebolimento del dollaro viene tendenzialmente neutralizzato da un indebolimento/rafforzamento delle quotazioni internazionali. La realtà è più complessa. Molte economie esportatrici adottano un sistema di cambi fissi per azzerare la volatilità valutaria e ridurre i rischi di natura finanziaria. Questo comporta un prosciugamento delle riserve valutarie quando le quotazioni delle materie prime scendono in misura notevole e per un periodo duraturo. D’altra parte, l’entità delle riserve s’impenna quando le quotazioni restano alte a lungo. E’ il caso dell’Arabia Saudita, che sin dal 1985 ancora il rial al dollaro.

Materie prime, dollaro senza concorrenti

Gli Stati Uniti beneficiano anche di un’invidiabile stabilità per i prezzi delle materie prime, grazie al dollaro relativamente forte e utilizzato per i pagamenti. Tutte le altre economie hanno la necessità di assicurarsi di possedere in ogni momento sufficiente valuta americana per non restarne a secco per gli scambi commerciali e finanziari. Un problema che la prima economia mondiale semplicemente non ha. Anche per questo sono sorti negli ultimi anni tentativi di depotenziare gli scambi in dollari, puntando sulla regolazione in valute locali. Di recente, in tal senso è andato un accordo “storico” tra la stessa Arabia Saudita e la Cina. Tuttavia, questi espedienti nel senso della “dedollarizzazione” non hanno minimamente (ad oggi) intaccato lo status del biglietto verde, che resta senza un concorrente all’altezza e capace di spodestarne il trono anche in prospettiva.

 

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