Cos’è la dedollarizzazione e cosa ci raccontano i numeri

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Negli ultimi anni, specialmente a seguito delle forti tensioni politiche e finanziarie tra Asia e Occidente, avrete senz’altro sentito parlare di “dedollarizzazione”. Il termine è molto familiare a coloro che si occupano di mercati, mentre resta oscuro alla gran parte delle persone comuni, trader compresi. Cosa significa esattamente e quali rischi eventualmente comporta? Cercheremo di spiegare il fenomeno e le sue implicazioni, attingendo ai numeri ufficiali, che restano una guida essenziale per discernere tra scenari reali e farneticazioni che spesso girano sul web e che vanno considerate in quanto tali.

Cos’è la dedollarizzazione

Per dedollarizzazione intendiamo la progressiva perdita di centralità del dollaro nel sistema degli scambi finanziari e commerciali globali. Il tema ci impone di spiegare, anzitutto, il concetto di valuta di riserva globale. Avrete sentito dire che la valuta americana lo sia, ma non sempre vi è stato forse chiaro il significato pregnante di questa espressione. Il dollaro è la divisa emessa dalla prima economia mondiale, di gran lunga considerata la più stabile e solida al mondo. Per queste sue caratteristiche è utilizzata per effettuare i pagamenti relativi agli acquisti di materie prime anche tra entità che non hanno sede negli Stati Uniti. Ad esempio, una compagnia petrolifera italiana compra greggio da una controparte algerina e regolano lo scambio in dollari.

Dollaro valuta di riserva mondiale

In effetti, le quotazioni di gran parte delle materie prime sono espresse direttamente in dollari. Lo stesso oro si acquista in dollari per un’oncia sui mercati internazionali. Ed è così per un’infinità di prodotti, dal cacao al caffè, dal legname al riso, ecc. In conseguenza di ciò, tutti gli stati hanno il bisogno di mantenere dollari tra le riserve valutarie. Quando il loro ammontare si riduce, avviene spesso che i governi siano costretti a limitare le importazioni fino ad arrivare alla svalutazione del cambio o, addirittura, alla dichiarazione formale di default. Lo stesso debito estero, cioè le emissioni di titoli di stato in valute straniere, per la stragrande maggioranza è denominato in dollari. E ciò vale particolarmente tra le economie emergenti. Le stesse criptovalute sono espresse in dollari quando se ne devono monitorare le quotazioni sulle varie exchange.

Benefici e costi per gli Usa

Grazie a questa condizione globale, gli Stati Uniti hanno la possibilità di emettere debito a costi relativamente bassi. Poiché tutti devono possedere dollari e i Treasuries (i titoli di stato americani) sono liquidità a tutti gli effetti e che staccano cedole periodiche, il resto del mondo ne sostiene la domanda e, quindi, i prezzi. Di conseguenza, i rendimenti risultano contenuti. A cascata vale per le imprese e le stesse famiglie, che riescono a indebitarsi a tassi bassi. Questo fenomeno ha nel corso dei decenni portato a due situazioni spiacevoli: l’economia americana è iper-indebitata nel settore pubblico e privato; inoltre, avendo un dollaro forte, la bilancia commerciale esita saldi cronicamente negativi. In altri termini, gli Stati Uniti importano dal resto del mondo molto di più di quanto esportano verso di esso.

Svolta con guerra Russia-Ucraina

E la dedollarizzazione? Una parte crescente del pianeta ritiene di doversi sganciare dalla dipendenza verso il dollaro. Lo crede per ragioni politiche ed economiche. Cina e Russia, rivali di Washington, credono di doversi ritagliare una sfera d’influenza perlomeno regionale e imporre ai clienti stranieri di regolare gli scambi in valute locali per l’acquisto di materie prime di cui abbondano. Questa convinzione si è fatta ancora più strada con la guerra tra Russia e Ucraina. E’ successo che il fronte occidentale ha reagito “congelando” circa 300 miliardi di riserve valutarie russe, che al tempo risultavano investite in asset soprattutto in Europa e in misura minore nel Nord America. Mosca ha perso in un attimo la disponibilità di quasi la metà delle sue detenzioni in valute estere.

Il mondo non occidentale ha assistito attonito a questo evento, perché ha segnalato senza ombra di dubbio quanto l’Occidente non sia più affatto così sicuro per gli investimenti realizzati da soggetti provenienti da aree sgradite. I cosiddetti Brics, club delle economie emergenti capitanato proprio da Cina e Russia, hanno così voluto accelerare i piani di dedollarizzazione. Come? Vendendo Treasuries e acquistando al suo posto oro. Tanto per farvi capire cosa stia accadendo, dovete sapere che alla fine dell’agosto scorso la Cina possedeva meno di 775 miliardi di dollari investiti in titoli del debito Usa. Nel gennaio del 2022, appena prima dell’invasione russa dell’Ucraina, ne deteneva per quasi 1.034 miliardi.

Corsa all’oro tra banche centrali

A conferma che nel mondo ci sia un evidente tentativo di dedollarizzazione dei mercati finanziari, sappiamo che nel 2022 gli acquisti di oro delle banche centrali raggiungeva la cifra record di 1.082 tonnellate. L’anno scorso, altre 1.037 tonnellate sono state accumulate e nel primo semestre di quest’anno non siamo lontani dalla media con 483 tonnellate (di queste, 45 la Turchia e 37 l’India). Il successo dell’oro di questi anni è, in un certo senso, la spia di una volontà di fuga dal dollaro di parte crescente del mondo non allineato con l’Occidente. Ma la tendenza non è recentissima: nell’ultimo decennio al dicembre 2023 la Russia ha accumulato 1.298 tonnellate di oro, la Cina 1.181, la Turchia 424, la Polonia 256 e l’India 246.

Sta accadendo la seguente: l’Occidente continua a confidare troppo sulla stabilità delle proprie monete fiat e, naturalmente, sul ruolo strategico del dollaro. Il resto del pianeta, anche non necessariamente a noi ostile, si prepara per un cambio di paradigma e punta sulla solidità dell’oro. Tuttavia, da qui a parlare di dedollarizzazione in corso ce ne passa. I numeri ci dicono anche che la volontà dei governi asiatici, in particolare, non stia esitando ancora frutti tangibili. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, al 30 giugno scorso il dollaro incideva ancora per il 58,22% delle riserve valutarie mondiali, seguito a lunghissima distanza dall’euro con appena il 19,76%. A seguire ancora yen con il 5,59%, sterlina con il 4,94% e yuan solo al 2,14%.

Dollaro resta valuta di riferimento globale

Se guardiamo alle cifre di fine anni Novanta, avevamo il dollaro sopra il 70%, l’euro sempre sotto il 20%, lo yen al 5% e la sterlina al 2%. In pratica, è vero che l’incidenza del dollaro nel lungo periodo sia scesa, ma resta preponderante e senza un rivale degno di nota. Rispetto alle altre valute mondiali, il dollaro ha perso un po’ di forza in termini di tasso di cambio ponderato dai massimi raggiunti nel 2022 di circa il 13% alle attuali quotazioni. C’è da dire che l’indebolimento sia stato persino perseguito da governo e Federal Reserve per sostenere la competitività delle imprese domestiche.

Altri dati smentiscono la dedollarizzazione. Il sistema dei pagamenti più importante al mondo è quello impostato su Swift, società con sede a Bruxelles, in Belgio. L’anno scorso, ha gestito 45,2 milioni di transazioni in media al giorno per un volume quotidiano di 34.000 miliardi di dollari. Il sistema alternativo voluto dalla Cina si chiama Cips: appena 25.900 transazioni quotidiane per 482 miliardi di yuan di controvalore, pari a 67 miliardi di dollari. Non a caso, l’estromissione della Russia dallo Swift dopo l’invasione dell’Ucraina rende molto difficoltoso per imprese, banche e governo locali intrattenere relazioni commerciali e finanziarie con il resto del mondo.

Dedollarizzazione non fenomeno imminente

In definitiva, la dedollarizzazione si rivela essere ad oggi una velleità per chi la persegue più o meno esplicitamente. I numeri ci dicono che non esiste ancora una vera alternativa al dollaro. Per quale ragione? Esso rispecchia un’economia forte, credibile, dove vige lo stato di diritto e la cosiddetta “accountability”, aperta e con un mercato finanziario sviluppatissimo, nonché estremamente liquido. Transare in yuan sarebbe quasi impossibile. Sappiate solamente che la valuta cinese non sia neanche pienamente convertibile e gli stranieri vi hanno accesso solamente attraverso il cosiddetto yuan off-shore. Per non parlare della scarsa credibilità delle istituzioni cinesi o anche russe nel garantire i capitali stranieri. Questo non significa che il dollaro avrà vita eterna come riserva di valuta globale. Preoccupa il trend fuori controllo del debito federale americano. Tuttavia, il suo tempo non sembra ancora agli sgoccioli.

 

 

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