Obbligazioni perpetue, ecco come funzionano e quali rischi comportano

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Quando parliamo di obbligazioni, facciamo riferimento a titoli del debito che offrono all’investitore una certa cedola fissa o variabile fino a una data scadenza prefissata. Essa rileva per il rimborso del capitale, che generalmente avviene in un’unica soluzione, anche se sono possibili altre soluzioni con rimborso rateale. Le obbligazioni perpetue sfuggono a questa logica per un elemento fondamentale: non prevedono alcuna scadenza. Per questo sono anche definite “irredimibili” o più semplicemente “senza scadenza”.

Obbligazioni perpetue, cosa sono

Se un titolo del debito non possiede una data per il rimborso, significa che il capitale non sarà mai restituito. E questa è esattamente la logica delle obbligazioni perpetue. Un soggetto emette un debito e non si vincola a rimborsarlo. A questo punto sorge spontanea una domanda: chi acquisterebbe mai un bond senza avere la garanzia di vedersi restituito il capitale o “principal”? Vi potrebbe sconvolgere apprendere che le emissioni di questo tipo non solo esistono e sono più frequenti di quanto pensiamo, ma affondano le loro radici nei secoli scorsi.

Addirittura, di recente il Financial Times ha riportato di recente la notizia di obbligazioni perpetue emesse nel lontanissimo 1624 da un ente idrico olandese e che ancora oggi stacca una cedola annuale lorda al possessore. Torniamo alla domanda. Quando acquistiamo un bond, il nostro obiettivo consiste nel ricevere periodicamente un flusso di reddito fino a una data scadenza, arrivata la quale avremo indietro il nostro capitale e potremo decidere di reinvestirlo per ottenere una nuova rendita. E’ secondo questa logica che funziona il mercato del reddito fisso.

Non solo vantaggi, anche costi per l’emittente

E’ chiaro che le obbligazioni perpetue non abbiano a che vedere con tutto questo. Tanto è vero che da anni alcuni economisti e politici suggeriscono all’Unione Europea di raccogliere fondi sul mercato emettendo debito senza scadenza e ottenendo in cambio risorse per finanziare programmi a sostegno della propria economia senza preoccuparsi di restituire il capitale prima o poi. Sembra tutto così fantastico, ma nulla è gratis. Se così fosse, tutti emetterebbero debito senza impegnarsi a restituirlo. Peccato che anche questo genere di emissioni possegga l’altra faccia della medaglia.

In effetti, le obbligazioni perpetue consentono al debitore, che generalmente è uno stato, di finanziarsi sui mercati senza vincoli di tempo. L’investitore, però, chiede in cambio un tasso di interesse molto superiore a quello che pretenderebbe dallo stesso soggetto su un titolo temporalmente definito. Ecco, quindi, che l’operazione comporta a carico del debitore un costo “extra”, che anno dopo anno si traduce in un dispendio di risorse che potrebbe superare il beneficio del mancato rimborso. Ad esempio, uno stato riesce a raccogliere capitali sul mercato al tasso del 3% per un periodo di 10 anni. Tuttavia, decide di emettere un titolo irredimibile e paga un tasso annuale del 6%. Come potete capire, si tratta di una bella spesa extra per gli interessi. Su un importo di 1 miliardo di euro, sarebbero 30 milioni in più ogni anno. Nell’arco di soli 33 anni, il maggiore costo equivarrebbe quello del capitale nominale.

Calcolo del rendimento

Ed è proprio questa la ragione per la quale un investitore può decidere di acquistare obbligazioni perpetue. Ha la certezza che non otterrà alcun rimborso del capitale, ma nei fatti riceverà in pagamento un tasso più alto e tale da compensare in un dato periodo di tempo tale mancato pagamento. Come potete immaginare, queste emissioni sono più frequenti in periodi di bassi tassi. Il debitore trova più conveniente finanziarsi a lunghissimo termine quando i costi sono ai minimi termini, così come gli investitori puntano ad ottenere tassi più alti spostandosi su scadenze sempre più lunghe.

In assenza della scadenza, quale può essere il rendimento delle obbligazioni perpetue? Non essendovi una data a cui avverrà il rimborso, il prezzo di acquisto non può essere confrontato con quello alla scadenza (che non esiste). Ed ecco che più semplicemente si suole rapportare il tasso cedolare alla quotazione di mercato. Ciò ci fornisce la misura del rendimento annuale riscosso. Ad esempio, se acquisto un bond irredimibile per 80 centesimi, cioè all’80% del valore nominale, e con cedola annuale del 4%, il rendimento sarà pari al 4% su 80, cioè al 5%. In 20 anni sarò in grado di ottenere un rendimento complessivo pari al 100% del capitale, anche se sto escludendo dal calcolo la perdita del potere di acquisto subita con l’inflazione. Dal 21-esimo anno in avanti per me sarebbe tutto guadagno.

Estrema sensibilità ai tassi

Ovviamente, l’assenza di scadenza non significa che le obbligazioni perpetue facciano perdere l’intero capitale. E’ sufficiente rivenderle sul mercato secondario per rifarsi almeno di parte di esso. Tuttavia, ciò ci espone al rischio legato all’andamento dei tassi. Se questi salgono, il valore del titolo scende. Poiché parliamo di un titolo infinitamente lungo, la discesa tende ad essere eventualmente velocissima. Lo stesso possiamo affermare nel caso di una risalita quando i tassi sul mercato scendono. E questo è un grosso rischio per chi investe. La formula da seguire per valutare il possibile impatto di una variazione del rendimento è la seguente: V = c x F / i, dove V è il valore di mercato del titolo, c il tasso cedolare, F il valore nominale e i il tasso di mercato.

Facciamo un esempio pratico. Uno stato emette obbligazioni perpetue alla pari, cioè al prezzo di 100 centesimi, con cedola 4%. Supponiamo che il mercato adesso pretenda un rendimento dell’8%. Ecco quale sarà il prezzo a cui verrà scambiato il titolo: 4 x 100 / 8 = 50. In pratica, il rendimento è raddoppiato e la quotazione del titolo si è dimezzata. Poiché questa è una storia risaputa, molti piccoli investitori si tengono alla larga da questi strumenti, che sono più che altro oggetto di speculazione da parte degli investitori istituzionali. Ne consegue che la liquidità degli scambi tende ad essere ridotta. E anche questo è un ulteriore rischio di cui tenere conto all’atto dell’investimento. Gli stessi emittenti hanno difficoltà ad emettere nuove tranche degli stessi titoli in caso di rialzo dei tassi, perché incasserebbero molto meno dell’esposizione nominale.

Obbligazioni perpetue popolari tra le banche

Non solo soltanto gli stati ad emettere obbligazioni perpetue. Anzi, sono particolarmente le banche a farlo con le cosiddette “ibride”. Sono così chiamate perché presentano caratteristiche a metà strada tra titoli del debito e di partecipazione al capitale di rischio (azioni). Esse non hanno una scadenza, ma prevedono una o più date di “reset” alle quali l’emittente ha la facoltà e non l’obbligo di rimborsare il capitale. Se non lo fa, dovrà continuare a pagare le cedole secondo un nuovo calcolo che tiene conto del livello corrente dei tassi di mercato, come da prospetto informativo. In genere, è fissato un periodo “non callable” di almeno 5 anni prima che avvenga la possibilità del rimborso.

Le obbligazioni perpetue bancarie si sono diffuse nel decennio scorso per ragioni regolamentari. Consentono alle banche di aumentare il patrimonio di vigilanza, in quanto questi titoli sono trattati formalmente come se fossero debito solamente per metà. Questo implica d’altra parte che gli investitori si assumono un rischio superiore a quello corso acquistando obbligazioni ordinarie con una scadenza certa. Infatti, i rating assegnati dalle agenzie sono inferiori rispetto alle emissioni senior e i rendimenti spuntati sul mercati regolarmente superiori. Le emissioni di questo tipo sono inibite al mercato retail in Paesi come l’Italia, in considerazione proprio dell’elevato rischio.

 

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