L’oro di Bankitalia si avvicina ai 300 miliardi di euro e il governo vuole trasferirlo in capo allo stato

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Rimane in piedi l’emendamento di Fratelli d’Italia, presentato nelle settimane scorse dal capogruppo del Senato, Lucio Malan, secondo cui “le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano”. Una semplice affermazione che trasferirebbe la titolarità dell’oro di Bankitalia in capo allo stato, cioè al governo di turno.

Oro di Bankitalia terzo al mondo

L’Italia detiene le terze riserve auree al mondo dopo Stati Uniti (8.133 tonnellate) e Germania (3.350 tonnellate). Queste non si trovano fisicamente tutte nei caveau di Palazzo Koch, perché per quasi la metà risultano depositate a Fort Knox, negli Stati Uniti. Parliamo di 1.061,5 tonnellate, pari al 43,29%. Altre 149,3 tonnellate (6,09%) si trovano in Svizzera e 141,2 tonnellate nel Regno Unito (5,76%). La ragione per cui l’oro di Bankitalia è per oltre la metà fuori dai confini nazionali, si deve ad una questione di sicurezza. Poiché dopo il 1945 c’era l’alto rischio che sarebbe scoppiato un nuovo conflitto con il blocco comunista capeggiato dall’Unione Sovietica, stati come Italia e Germania pensarono bene di mettere al riparo le rispettive riserve.

Di recente, l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha invitato l’Italia a rimpatriare l’oro di Bankitalia depositato negli Stati Uniti, sostenendo che non vi sarebbero più certezze con la presidenza di Donald Trump. Un’ipotesi nel decennio passato ventilata dall’attuale capo del governo, Giorgia Meloni, la quale non vuole in questa fase accendere tensioni con l’alleato americano. Ma torniamo all’emendamento della maggioranza. Se fosse approvato con un voto del Parlamento, le nostre riserve costituite da lingotti e monete diverrebbero ufficialmente di proprietà dello stato. Ed oggi non lo sono? Bankitalia è un ente di diritto pubblico, il cui capitale è detenuto dalle banche italiane per quote massime ciascuna del 3%.

A chi appartengono le riserve auree?

A rigore, l’oro di Bankitalia non appartiene allo stato, sebbene non sia considerato un asset in mano a soggetti privati. Nessuno nei fatti ne potrebbe disporre, fuorché lo stesso istituto. Dal 1999, anno in cui l’Italia iniziò a fare parte dell’Eurosistema, le riserve auree nazionali apparterrebbero alla Banca Centrale Europea (BCE). Usiamo il condizionale, perché la questione è più complessa di così. Diciamo che sarebbe Francoforte a poterne autorizzare la loro disposizione, sebbene nessuna banca centrale nazionale abbia effettivamente rinunciato alla titolarità dell’asset.

Commentando il provvedimento italiano, la BCE si è limitata a rendere noto di non essere stata messa al corrente. La delicatezza della vicenda impone a tutte le parti in gioco di evitare dichiarazioni inopportune e tensioni inutili. Cosa significherebbe che l’oro di Bankitalia passerebbe in capo allo stato? Nel concreto, nessuno lo ha compreso ancora. In passato, il mondo politico aveva trasversalmente preso in considerazione l’ipotesi di vendere almeno parte delle riserve per abbattere l’altissimo debito pubblico. E il tema stuzzica parte dell’opinione pubblica, visto che le quotazioni del metallo giallo sui mercati internazionali hanno segnato sempre nuovi massimi storici negli ultimi tempi. In euro guadagnano più del 130% in 5 anni.

L’idea non nuova di usare l’oro per ridurre il debito

Ai prezzi correnti il valore di mercato dell’oro di Bankitalia supera i 283 miliardi di euro. In rapporto al PIL italiano, circa il 12,5%. Sembra tantissimo, eppure non ridurrebbe in misura significativa lo stock del nostro debito, che ormai si avvicina ai 3.100 miliardi. Avrebbe poco senso, quindi, vendere i lingotti accumulati quasi del tutto dopo il secondo conflitto mondiale. A fronte di un beneficio risibile, il costo sarebbe potenzialmente maggiore. Le nuove generazioni non lo sanno o non sono abituati più a pensarci, ma fino a circa mezzo secolo fa le riserve auree servivano a garantire la moneta emessa dalle banche centrali. Il “gold standard” agganciato al dollaro USA rimase in piedi fino al 1971, quando l’amministrazione Nixon si ritrasse dall’Accordo di Bretton Woods.

Ripensamenti con la crisi del 2008

Sebbene non sia più così, ancora oggi le riserve auree rappresentano una garanzia implicita per i mercati. Rispetto a cosa? Nel caso estremo di default, parte del debito potrebbe essere ripagato attingendo ai lingotti nei caveau. E se le turbolenze finanziarie dovessero riguardare proprio la moneta, le riserve costituirebbero una base per mantenere livelli minimi di fiducia. Negli ultimi anni, diverse banche centrali stanno allentando la dipendenza dal dollaro puntando sugli acquisti di oro per accrescere la solidità finanziaria percepita dagli investitori. Stanno andando in questa direzione principalmente Russia, Cina, Turchia, India, ecc.

In un mondo che ammassa debiti su debiti e dove i cambiamenti geopolitici appaiono epocali, rinunciare alle riserve auree sarebbe sciocco o persino un errore tragico. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, Banca d’Inghilterra e Banca Nazionale Svizzera cedettero sul mercato gran parte delle rispettive riserve nella convinzione che le quotazioni del metallo sarebbero rimaste grosso modo invariate e che il futuro delle monete sarebbe rimasto definitivamente sganciato dal destino dell’oro. Gli scricchiolii seguiti al crac di Lehman Brothers nel 2008 riportarono tutti con i piedi per terra. Dopo quell’evento, l’oro è tornato a correre sui mercati internazionali. E’ persino sorto un asset alternativo: le criptovalute. Molti investitori, fino a poco fa quasi esclusivamente individuali, iniziarono a comprare Bitcoin e altri token per mettersi al sicuro rispetto alle stamperie monetarie e al temuto fenomeno dell’inflazione.

L’oro di Bankitalia sostiene la fiducia nel sistema italiano

Ecco perché il tema dell’oro di Bankitalia è tutt’altro che una formalità. Riconducendolo in capo allo stato, scoperchia il vaso di Pandora sulla titolarità attuale. Cosa non meno rischiosa, può diffondere il timore che il governo prima o poi usi le riserve per finanziare provvedimenti di spesa. Qualcosa di simile è accaduto nei mesi scorsi con la voce circolata circa la volontà di rivalutazione dell’oro da parte della Federal Reserve. Non meno importante, infine, l’impatto sulla credibilità dell’Eurosistema. Se gli stati nazionali possono avocare a sé i poteri sulle rispettive riserve, allora quali poteri effettivi possiede la BCE e con quali garanzie concrete può sostenere in futuro la fiducia nella moneta unica?

Nessuno si aspetta che il provvedimento sull’oro di Bankitalia muti granché la sostanza. Sembra che il governo di centro-destra voglia semplicemente rimarcare un concetto che ad oggi è rimasto aleatorio, vale a dire che le riserve siano pubbliche e non nella disponibilità di soggetti privati come le banche-azioniste. Sarebbe stato più opportuno arrivare a questo punto dopo un confronto trasparente con i vertici dello stesso Palazzo Koch, in modo da offrire un’idea di sistema sulla necessità condivisa di ufficializzare una volta per tutte la posizione su questo asset prezioso.

 

 

 

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