La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan ha compiuto passi da giganti dal punto di vista economico, sociale e persino geopolitico. Si affacciava al nuovo secolo e millennio in condizioni di relativa arretratezza e a distanza di una ventina di anni è diventata una potenza regionale di tutto rispetto con un Pil che l’anno scorso superava i 1.100 miliardi di dollari, pari a circa 12.850 dollari per ciascun abitante. E’ stata e resta un’economia emergente dalle enormi potenzialità, anche grazie alla sua collocazione geografica a cavallo tra Europa, Asia e Africa. Ma non si può certo dire che la lira turca sia stata fonte di stabilità. Negli ultimi dieci anni risulta avere perso il 94% del suo valore contro il dollaro e solamente nell’ultimo anno ha segnato un pesante -19%.
Lira turca in picchiata nell’ultimo decennio
La causa principale dei suoi guai è stata paradossalmente quello stesso Erdogan, che si era conquistato la fiducia dei turchi puntando proprio a sradicare l’inflazione e a stabilizzare il cambio dopo la crisi finanziaria del 2002. Il primo decennio al potere sembrava confermare tale promessa. Il cambio tra dollaro e lira turca si aggirava intorno a 1,50 agli inizi del decennio passato. Un primo momento di svolta negativa si ebbe nel 2016, quando il fallito attentato ai danni del capo dello stato innervosì i mercati. Ne seguì una diffusa repressione ai danni degli oppositori politici e molti capitali defluirono all’estero. Parecchi risparmiatori domestici corsero a comprare Bitcoin e oro per proteggere il potere di acquisto. Scelta più che azzeccata, se è vero che Bitcoin (in dollari) in dieci anni ha segnato un’esplosione del 18.400% e il metallo (sempre in dollari) del 130%.
Da quel momento in avanti per la lira turca non c’è più stata pace. Erdogan perseguì una politica monetaria volta a tenere i tassi di interesse bassi, autodefinendosi “nemico dei tassi”. La stabilità dei prezzi saltò, l’inflazione iniziò a galoppare e nel 2018 si ebbe una crisi finanziaria che travolse il cambio. La reazione del presidente fu in due tempi: accettare una stretta monetaria per riportare la calma sui mercati e subito dopo tornare alle vecchie abitudini. Il caso più eclatante si ebbe quando nominò governatore centrale Naci Agbal nel novembre del 2020. Questi alzò i tassi, rafforzò in pochissime settimane il cambio e nel marzo del 2021, a distanza di appena quattro mesi veniva rimpiazzato dal fedele Sahap Kavcioglu.
Tassi bassi fonte di instabilità finanziaria
Da mero esecutore degli ordini di Erdogan, tagliò i tassi fino a portarli all’8,50%. Nel frattempo, l’inflazione galoppava fino all’85% nell’autunno del 2022. La lira turca collassava fino a un cambio a ridosso di 20 contro 1 dollaro. Ma la banca centrale impediva il raggiungimento di un equilibrio di mercato vendendo riserve valutarie, le quali scesero a livelli negativi, nonché imponendo rigidi controlli alla circolazione dei capitali. Dopo la rielezione nel maggio dello scorso anno, resosi conto di non potere più proseguire con una politica monetaria non ortodossa, Erdogan cambiò i vertici dell’economia. Banca centrale e Tesoro finirono in mani sicure. Tra svalutazione della lira, aumenti dei tassi fino all’attuale 50% e tagli al deficit, l’inflazione è tornata a scendere e le riserve valutarie a risalire anche al netto di operazioni swaps e debiti.
Inflazione turca resta altissima
Al momento, il cambio si attesta sopra 34,25. C’è da dire che la banca centrale continua, pur in misura limitata, ad impedire una sua piena svalutazione per rallentare la crescita dei prezzi al consumo. Questi resta appena sotto il 50% e le previsioni per fine anno sono state riviste al rialzo dallo stesso governo al 41,5%. Per l’anno prossimo è attesa al 17,5% e nel 2026 al 9,7%. Bastano questi numeri per capire che la crisi della lira turca non può considerarsi del tutto cessata. I tassi di cambio risentono sostanzialmente dei differenziali d’inflazione tra le economie. Se i prezzi al consumo negli Usa crescono più lentamente che in Turchia, il dollaro tenderà ad apprezzarsi contro la valuta emergente.
Grosso modo, se l’inflazione americana nel prossimo biennio sarà in media del 2%, avremo che la lira turca si deprezzerà di un altro 25% da qui a fine 2026. Sempre che le previsioni del governo non si rivelassero ottimistiche. Ovviamente, i movimenti dei cambi possono essere molto differenti. Una buona notizia per Ankara è data dal fatto che i tassi di interesse ora risultano, pur di poco, superiori all’ultimo dato sull’inflazione. Questo vuol dire che sono diventati positivi in termini reali dopo anni. In teoria, attireranno capitali esteri in cerca di rendimenti più alti. D’altra parte, gli stessi dati macro ci dicono che nell’ultimo anno la lira turca si è indebolita soltanto del 19% contro un’inflazione domestica ancora del 50%. Dunque, risulta molto più forte in termini reali e questo prelude a una maggiore svalutazione futura, nonché a problemi di competitività per l’economia.
Lira turca sottovalutata?
Non a caso, il saldo della bilancia commerciale resta profondamente in rosso. Le esportazioni nette non decollano, per cui necessiteranno di una lira turca ancora più debole. Un segnale positivo viene, invece, dal Big Max Index. Sin dal 1986 The Economist pubblica periodicamente un indice per valutare se i tassi di cambio siano sottovalutati, corretti o sopravvalutati. Per farlo usa il rapporto tra i prezzi del panino standard del McDonald’s – da cui il nome – negli Usa e negli altri stati. Nel luglio scorso, costava 5,69 dollari in media negli Usa e 155 lire in Turchia. Il cambio equo sarebbe stato, dunque, di 27,24 contro i 33,11 del tasso effettivo vigente sul mercato. Pertanto, la valuta emergente risultava sottovalutata del 17,7%.
Questo non implica che necessariamente la lira turca debba recuperare terreno contro il dollaro. I capitali si spostano in base alla fiducia che nutrono verso un sistema Paese. E la storia anche recente dimostra che possano trascorrere anni senza che i tassi di cambio si riallineino ai valori che presumibilmente meglio rifletterebbero i fondamentali macroeconomici. Tra l’altro, il Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia il governo dal fare pressioni sulla banca centrale per ottenere un taglio prematuro dei tassi. Sarebbe l’ennesimo errore in pochi anni in tal senso e potrebbe far perdere definitivamente fiducia agli investitori circa l’autonomia della politica monetaria dalle ingerenze politiche. L’Occidente non è immune da tali rischi, tant’è che la corsa delle numerose criptovalute si deve alla crescente sfiducia dei risparmiatori verso le rispettive banche centrali.
Mercati restano cauti sul futuro
Lo stesso mercato obbligazionario ci segnala di non essere particolarmente ottimista. Il rendimento decennale del bond governativo è salito al 29,5%, che è un livello elevatissimo per gli stessi standard turchi. Il decennale americano rende, invece, poco più del 4,10%. La differenza annuale di quasi il 25,5% esprime non soltanto il differente rischio di credito scontato dagli investitori, ma anche aspettative d’inflazione più alte per la Turchia, nonché un cambio in picchiata per la lira turca. Il fattore geopolitico non è meno importante. Erdogan gioca sulle ambiguità nel Medio Oriente e punta a ritagliarsi un ruolo strategico nell’area, anche in eventuale rotta di collisione con i partner della Nato. Negli anni recenti, le tensioni con Washington ed Europa hanno contribuito a far fuoriuscire i capitali esteri dal Paese, quasi azzerando le detenzioni di bond governativi e colpendo così anche il cambio, la cui crisi non può ancora dirsi finita.