Perché la svalutazione del dollaro come con l’Accordo di Plaza non è facile da replicare

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Il presidente eletto degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, tra pochi giorni pronuncerà il giuramento e sarà ufficialmente e nuovamente alla guida della superpotenza mondiale. Il suo cruccio fin da quando si candidò per la prima volta alle primarie del Partito Repubblicano nel 2015 consiste nell’azzerare il deficit commerciale americano, per “Rifare grande l’America”. Le importazioni di beni dall’estero ormai superano abbondantemente e ogni anno i 1.000 miliardi di dollari. Per cercare di risollevare la competitività delle aziende americane il prossimo governo prenderebbe in considerazione perfino la svalutazione del dollaro.

Svalutazione del dollaro nel 1985

Quando abbiamo parlato di svalutazione del cambio, abbiamo detto che essa può esitare costi superiori ai benefici. Può accadere che il costo delle importazioni aumenti più del valore delle esportazioni. Ciò porterebbe all’aggravamento del disavanzo commerciale. Probabile che non sia il caso dell’America, che dispone di abbondanti materie prime con cui produrre e importa molti manufatti dall’estero per via dei minori costi. Non è la prima volta che si parla di svalutazione del dollaro. Anzi, negli anni Ottanta di Ronald Reagan si passò ai fatti con il famoso Accordo di Plaza. Fu così chiamato perché i banchieri centrali e i ministri delle Finanze delle 5 grandi potenze del tempo (Francia, Germania, Regno Unito, Giappone e Canada) furono invitati a concordare l’operazione con gli Stati Uniti e la riunione si svolse all’Hotel Plaza di New York. Ironia della sorte, anni dopo sarebbe stato acquistato niente di meno che da Trump, il quale lo sponsorizzò perfino con un cameo in “Mamma, ho riperso l’aereo – Mi sono smarrito a New York”.

Accordo di Plaza dopo anni di tassi alti

Perché Reagan giunse a tale conclusione, contrariamente alle premesse per le quali era stato eletto la prima volta nel 1980? Gli Stati Uniti erano riusciti a battere l’alta inflazione con una politica monetaria molto restrittiva, condotta dall’allora governatore della Federal Reserve, Paul Volcker. I tassi di interesse agli inizi de decennio erano saliti fino al 20% e questo aveva arrestato la crescita dei prezzi al consumo. Ma il cambio si era rafforzato di molto contro le altre principali valute e l’economia registrava deficit commerciali crescenti, specialmente con due altre economie: Giappone e Germania. Contro il marco tedesco il dollaro in cinque anni aveva raddoppiato il suo valore, contro lo yen il rafforzamento era stato del 20%.

Grazie all’Accordo di Plaza e alla successiva svalutazione del dollaro, i tassi di cambio tornavano a respirare. Il biglietto verde perdeva circa il 52% in due anni contro il marco e il 67% contro lo yen nei seguenti 10 anni. Questo nuovo equilibrio migliorò sensibilmente la bilancia commerciale americana e portò vantaggi anche alle altre principali economie, che si ritrovarono con valute più forti e senza la necessità di tenere i tassi alti per attirare capitali ed arginare il rischio dell’instabilità dei prezzi interni.

Contesto geopolitico differente

Il successo di Plaza spinge oggi Trump a credere che sia possibile una sua riedizione. Servirebbe una nuova svalutazione del dollaro per eliminare gran parte del deficit commerciale, cioè per recuperare competitività. E che la forza del cambio sia alla base della scarsa competitività domestica è fuori di dubbio. Ma che possa servire una svalutazione non è cosa così pacifica da sostenere. Il dollaro è valuta di riserva mondiale, che tutto il resto del pianeta compra, spesso in forma di titoli di stato americani, per commerciare ed effettuare transazioni di natura finanziaria. A ciò si deve in gran parte la sua forza anche quando i tassi di interesse sono relativamente bassi, com’è accaduto nel decennio passato. Comporta svantaggi inevitabili, ma che risultano surclassati fino ad oggi dall’indubbio vantaggio di poter emettere debito a basso costo. E ciò riguarda non solo lo stato, ma anche il settore privato.

Anche ammesso che la svalutazione del dollaro fosse opportuna, sarebbe possibile. Plaza si svolse in un contesto geopolitico ed economico profondamente differente da quello odierno. I Paesi citati restano tra le principali economie mondiali, ma nel frattempo si sono affacciate ai piani alti colossi come la Cina, il Brasile, l’India, il Messico, ecc. Pechino guida la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti. Il deficit commerciale in buona parte gli americani lo registrano proprio con essa. Ma quello che un tempo era definito Terzo Mondo, non senza un certo disprezzo, oggi incide per quasi la metà del PIL mondiale. E la cattiva notizia per Trump è che non sta perlopiù dalla parte dell’America.

Dazi strumento negoziale?

In altre parole, la svalutazione del dollaro passerebbe per un accordo con attori internazionali tendenzialmente ostili a Washington. Perché la leadership comunista cinese dovrebbe fare un favore agli americani? Forse è per questo che Trump ventila la minaccia di dazi, un modo per indurre Xi Jinping a miti consigli? Non è detto che non possa riuscire nell’impresa, ma è improbabile che l’operazione sortisca gli stessi effetti positivi di 40 anni fa. Il mondo non è più diviso in blocchi. Le merci circolano molto più liberamente, così come i capitali. Tale mobilità quasi perfetta tende a neutralizzare mosse contrarie al mercato. E poi siamo proprio sicuri che gli americani sarebbero contenti di esportare di più, ma di comprare beni e servizi a prezzi molto più alti?

La Cina di Xi in questi mesi sta impedendo allo yuan di continuare a perdere valore contro il dollaro. Ma fino a quale punto si spingerebbe ad accettarne una rivalutazione? Non è un mistero che Pechino miri a rendere la propria valuta, se non una vera alternativa globale, quanto meno regionale. E gli farebbe comodo, entro una certa misura, che lo yuan diventasse più forte, così da attirare capitali stranieri e aumentare gli accordi bilaterali per effettuare pagamenti in valute locali, anziché ricorrendo al dollaro. Ma questo non è lo scenario a cui la Casa Bianca guarderebbe con simpatia. Si tratterebbe di segare l’albero sul quale sta seduta l’intera economia americana.

Svalutazione del dollaro operazione rischiosa

Difficile immaginare che la svalutazione del dollaro passerà per una riunione in stile Accordo di Plaza. Probabile che Trump faccia pressione sulla Federal Reserve per ottenere tassi più bassi, anche se ciò contrastasse con i fondamentali macro. Un’operazione rischiosa, perché la fiducia degli investitori verso l’indipendenza monetaria potrebbe venire meno con effetti molto spiacevoli e di lunga durata. L’istituto perderebbe di credibilità e l’inflazione salirebbe possibilmente a livelli tali da far perdere il controllo della stabilità dei prezzi. Per evitare questo scenario non possiamo escludere che esso venga “costretto” dal governo e dalle circostanze ad ufficializzare un obiettivo d’inflazione più alto dell’attuale 2%, così da segnalare al mercato di continuare a rispettare le proprie stesse regole, semplicemente cambiandole. E ci sarebbe un accordo tacito con le altre principali banche centrali per evitare che ne seguano la mossa, neutralizzandola. Tempi facili per le criptovalute con questi chiari di luna.

 

 

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