Ancora su Tasse Crypto e loro interpretazioni

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Ancora su tasse crypto e Bitcoin, e loro interpretazioni: un tema molto caldo in Italia, che continua a far discutere e raccogliere dissensi, ma anche interessanti discussioni e confronti.

La notizia di questa proposta di legge, pronunciata il 15 ottobre in conferenza stampa dal Viceministro dell’Economia Maurizio Leo, che intenderebbe innalzare dal 26% al 42% l’imposizione fiscale sulla plusvalenza da cashout di fondi in cryptovalute, ha come ovvio destato scalpore.

Se approvata, andrebbe a caratterizzare l’Italia come paese con la più alta “tassazione” (termine a ben vedere improprio, ma che usiamo per semplicità) in ambito crypto, assieme alla Danimarca, che comunque porge uno scenario di investimenti e prassi fin-tech molto più evoluto del nostro.

Tasse e crypto: gli interrogativi che questa manovra pone

C’è da dire che gli interrogativi in materia sono molti, e vanno ben oltre la semplice dicotomia “tassa sì, tassa no”.

Innanzitutto si tratta di una proposta di legge, peraltro osteggiata da alcuni rappresentanti della stessa maggioranza di governo, che ad oggi è ben lontana dall’iter necessario a renderla operativa. Tuttavia è anche vero che la relativa discussione, comprensiva di eventuale stesura bozza e inserimento o meno degli emendamenti proposti nel frattempo, avverrà ben prima del 31 dicembre 2024, quindi in tempi non particolarmente lunghi. Dettaglio che impone una certa attenzione delle parti in gioco.

Ma, a parte questo, ancora più nebulose e incerte sono le motivazioni che hanno spinto un Viceministro a dichiarare con tanta leggerezza un intendimento di questa portata, dichiarazione che ha avuto come immediata conseguenza non solo il malcontento di investitori crypto e addetti ai lavori del settore, ma anche la diffusione sui mercati di una certa riluttanza da parte dell’Italia in materia di legislazione crypto-friendly, in grado di attirare gli investimenti “ad alto grado di innovazione e tecnologia” che molti esponenti del governo sembravano voler caldeggiare (si pensi anche solo alle recenti uscite di personaggi come Elon Musk, solo per citare il più celebre sul piano mediatico).

Quali sono, laddove presenti in senso deliberato e consapevole (aspetto tutt’altro che scontato), i reali intendimenti del governo? Si vuole monetizzare effettivamente quella che viene ritenuta una voce di bilancio interessante, oppure la dichiarazione ha lo scopo di disincentivare alcune prassi, incentivandone altre? Trattandosi di un’aliquota attivata in senso operativo dal solo cashout, si intende favorire l’accumulazione fine a sé stessa, oppure si ritiene che l’asset cryptovalutario — come ovvio, soprattutto Bitcoin — salirà a tal punto da rendere conveniente per l’investitore anche il cashout, nonostante il prelievo fiscale piuttosto sostanzioso?

Tante domande, ma soprattutto fattispecie molti differenti e contrastanti, che aprono scenari altrettanto diversi e rendono l’interpretazione della cosa piuttosto ardua.

In questo articolo andremo a dipanare la questione, evitando inutili nonché ingiustificati allarmismi. Come ovvio non intendiamo prevedere futuri di per sé imprevedibili, ma capire quali potrebbero essere le caratteristiche del panorama crypto in Italia da qui a qualche mese, e le relative contromosse.

Tasse e crypto: una dichiarazione a effetto?

Posto che l’effettiva approvazione ed entrata in vigore di una norma così impattante sui guadagni di investitori crypto intenzionati a monetizzare in regime di considerevole plusvalenza è come ovvio fattispecie molto incerta di per sé, è tuttavia opportuno rilevare due aspetti in certo senso positivi:

Il primo è l’aver già sollevato alcuni malumori nella stessa maggioranza. Basti pensare alla subitanea presa di posizione del parlamentare della Lega Giulio Centemero, che ha da subito dichiarato di voler presentare al Parlamento un emendamento per evitare che la misura venga approvata.

Il secondo è che comunque, nel bene e nel male, l’evento in sé, certamente in questa fase più “mediatico” che strettamente “politico”, ha generato un dibattito piuttosto acceso e interessante in materie come innovazione, transizione digitale e appunto tecnologia blockchain, nella specifica declinazione della finanza decentralizzata e degli investimenti in criptovaluta.

Ricordiamo a tale proposito una recentissima lettera aperta, controfirmata il 17 ottobre da importanti nomi del comparto crypto “italico”, redatta al fine di sensibilizzare la politica su quella che in termini strategici sembra essere a tutti gli effetti una scelta non solo impopolare, ma anche altamente compromettente per le sorti dell’Italia sul piano tecnologico, sociale e industriale.

In tale lettera, indirizzata sia al Ministero dell’Economia e delle Finanze che al Governo, si evidenziano nello specifico:

L’iniquità verso il comparto degli investitori, che sarebbero comunque altamente discriminati rispetto ad altre forme di investimento, rimaste disciplinate dalle stesse normative e con le medesime aliquote.

L’iniquità verso i giovani, tendenzialmente poco inclini all’educazione finanziaria e a interfacciarsi col mondo della finanza e della gestione classica del risparmio, che nel campo crypto vedrebbero un’alternativa estremamente interessante e più vicina alle loro esigenze e alla loro più elevata sensibilità tecnologica.

Il danno in generale per l’industria italiana dei servizi crypto, che probabilmente o certamente verrebbe interessata da un calo di competitività rispetto ad altre nazioni, non solo lontane, ma anche presenti in Europa, nonché in contesti assolutamente limitrofi (basti pensare in effetti alla vicina Svizzera). Si parla di una presenza pari a circa centocinquanta operatori cosiddetti Virtual Asset Service Providers, vale a dire iscritti nel registro ufficiale dell’OAM (Organismo degli Agenti e dei Mediatori), che si identificano in un settore il cui operato si attesta su un giro d’affari di 2,7 miliardi di euro, peraltro aumentati di un buon 85% dal 2023 al 2024.

Il danno indiretto da fuga all’estero, che andrebbe a interessare moltissimi profili professionali, soprattutto giovani, con qualifiche in ambiti come informatica, crittografia e scienze economiche e tecnologiche. Indirettamente, tale dinamica potrebbe anche avere effetti su attività connesse e correlate, tra cui il minare Bitcoin o in generale lo sviluppo di soluzioni blockchain.

L’impatto negativo sugli investimenti interni in materia di infrastrutture e protocolli infotelematici connessi al mondo degli scambi digitali, degli applicativi e soluzioni mediate dalla blockchain e delle transazioni cryptovalutarie.

L’impatto altrettanto negativo sulle componenti più evolute e moderne della consulenza finanziaria.

Gli effetti direttamente e indirettamente avversi per l’erario stesso, che si troverebbe a incassare cifre inferiori rispetto al preventivato, e dovrebbe comunque considerare la non certo remota ipotesi di una fuga di capitali in giurisdizioni estere — chiaramente facilitata dalla natura decentralizzata degli asset in questione — nonché una forte propensione all’occultamento di crypto-capitali attraverso banale rinuncia alla dichiarazione negli appositi quadri reddituali e patrimoniali.

Riassumendo, l’uscita del Viceministro ha chiaramente scoperchiato e messo in luce un mondo che prima di oggi era appannaggio di soli operatori, hodler e investitori crypto, e che oggi si pone come soggetto con tutta l’intenzione di conquistare un peso politico e non solo economico nel contesto della discussione pubblica.

C’è da dire, peraltro, che ne frattempo al novero dei “nemici delle crypto” si sono aggiunte altre voci, contribuendo inevitabilmente a rendere il clima ancora più pesante.

Parliamo delle dichiarazioni del Commissario CONSOB Federico Cornelli sul quotidiano cattolico Avvenire, ma soprattutto di quelle degli economisti della Banca Centrale Europea Ulrich Bindseil e Jurgen Schaaf, noti per aver previsto il collasso del settore in seguito al noto crollo di FTX, i quali continuano a sostenere l’idea di Bitcoin come bolla destinata a esplodere nonostante le conferme puntuali che invece continuano a dimostrare il contrario.

Insomma, uno scenario che almeno in questa congiuntura sembrerebbe ostile.

Detto questo, però, rimangono più concretamente gli interrogativi di fondo, che seguono in sostanza due direttrici diverse e opposte: da un lato l’idea che, come anticipato, tale mossa abbia permesso di ottenere dei risultati più sul piano delle reazioni che dell’effettiva volontà di procedere ad un prelievo fiscale; dall’altro lato, invece, l’opposta ipotesi di un’effettiva volontà del legislatore di avviare un processo di monetizzazione costante e sistematico.

Caso uno: e vedere di nascosto l’effetto che fa…

Nel primo caso, che abbiamo scherzosamente denotato col noto verso dell’altrettanto nota canzone di Enzo Jannacci (adattissima al caso), giova però ricordare che la conferenza stampa nella quale il discorso è stato pronunciato è e rimane un momento in cui il governo ha chiaramente espresso concetti e intenzioni riguardanti la tanto attesa, e come ovvio antipatica per tutti, manovra finanziaria 2025, che in termini spiccioli si traduce in una perifrasi interrogativa piuttosto semplice ed eloquente: dove andare a prendere i soldi?

Nell’ipotesi più ottimistica, ma non per questo così remota, prendendo anche e soprattutto in esame l’apporto piuttosto scarso che le casse erariali potrebbero ottenere da una monetizzazione derivante da incremento del 16% residuo su crypto-capitali in plusvalenza e in effettivo regime di cashout, potrebbe farsi largo un’interpretazione apparentemente paradossale, ma non certo lontana da certe strategie controintuitive tipiche della politica.

Le forze di governo potrebbero aver “sollevato questo polverone” proprio per prendere atto di quella che sarebbe stata la relativa controffensiva, per rassicurare al momento opportuno circa il rientro della paventata misura, e dunque per formalizzare anche coram populo la volontà di non voler tartassare minimamente il comparto crypto, con ampio eco successivo nelle testate nazionali e internazionali.

In questo caso, certamente teorico, ma non per questo ingiustificato, andrebbe pienamente a valere l’interpretazione “a effetto”, come l’abbiamo poco fa denotata.

Di contro, una medesima interpretazione potrebbe però condurre al caso diametralmente opposto, quello cioè di una misura per spaventare o anche solo eccitare la compagine degli investitori, e per costringerli ad abbandonare da subito il campo crypto “nativo”, monetizzando quanto eventualmente monetizzabile e dirottando i residui capitali a forme alternative, ivi comprese quelle mediate da strumenti e prodotti finanziari del tutto classici, che da qualche tempo hanno invaso anche questo settore.

Da quest’ultimo punto di vista, neppure troppo malizioso sarebbe ricordare la recente e dunque molto sospetta visita in Italia di Larry Fink, CEO di BlackRock, che come sappiamo risulta essere soggetto altamente interessato a piazzare suoi prodotti anche a base crypto, in primis ETF Bitcoin.

In altre parole, un incremento della preferenza verso questo genere di proposte d’investimento potrebbe essere la vera ed eloquente cartina al tornasole di una politica molto chiara: disincentivare l’acquisto di asset digitali da detenere in regime di autocustodia con relativa dichiarazione al fisco, e di conseguenza incentivare l’acquisto di prodotti finanziari completamente gestibili attraverso le normali e pregresse strumentazioni d’istituto, magari anche in presenza di accordi più o meno strutturati con opportuni partner, tra cui appunto soggetti quali il sopraccitato BlackRock o molto affini.

Da notare quanto questa ipotesi potrebbe anche valere in forma di istanza “spot”, ossia come mossa congiunturale e del tutto attuale, valida anche qualora in futuro, del ventilato aumento, non se ne faccia nulla e torni tutto esattamente com’era. In tal caso il governo regalerebbe qualche cliente in più ai grandi fondi di investimento presidiati dai personaggi internazionali di cui sopra, riallineandosi poco dopo al mercato globale della compravendita crypto.

Caso due: il fare cassa

Per quanto riguarda l’interpretazione opposta, ossia quella secondo la quale il governo sarebbe invece effettivamente intenzionato a procedere con la crypto-imposta maggiorata, con l’intento di fare cassa (anche se poco) nel breve periodo, e di scoraggiare gli investimenti crypto nel medio-lungo periodo, lo scenario diventa potenzialmente più critico per il settore, in quanto si configura un piuttosto chiaro intento di scoraggiare l’acquisto e detenzione di criptovalute a scopo di trading.

Giova comunque ribadire che tutte queste dinamiche intervengono unicamente nella generazione di plusvalenza da cashout, e non certo da comune accumulazione di crypto a scopo di puro investimento a lungo termine e incremento del potere d’acquisto, laddove i “capitali”, ovvero le grandezze di natura stock, porgono in Italia solo un’esigua imposta di bollo pari al due per mille.

Da notare che anche in quest’ultimo caso, però, la presenza di alternative finanziarie “a base crypto” sarebbe tutelata e pienamente a disposizione di investitori e risparmiatori. Aspetto piuttosto interessante, che individua nel discrimine dell’approvazione o meno della proposta la vera e a questo punto unica prova provata dei reali intendimenti del governo.

Conclusioni

Alla luce di quanto analizzato, è evidente che l’attenzione della comunità crypto dovrà essere tutta rivolta alle decisioni su tale maggiorazione, nella speranza, come ovvio, che non se ne faccia niente, ma anche nell’ottica di proporre attivamente dei miglioramenti della normativa.

In questo caso, ossia nel caso del “tanto rumore per nulla” di shakespeariana memoria, non ci si troverebbe di fronte a un banale dietrofront come potrebbe accadere per qualsiasi altra proposta non andata in porto.

Al contrario, per ragioni che come ovvio non possiamo indagare in modo approfondito, l’intera mossa è da liquidare come grande missione esplorativa mediatica sull’interesse per la cryptosfera da parte di investitori e cittadini comuni, con potenziale ricaduta in termini di consenso.

Qualora invece prevalga la tassazione maggiorata, è altrettanto evidente la scelta dell’Italia — ovvero, come ovvio, di questo governo — di mantenere un profilo piuttosto avverso alle crypto utilizzate come strumento di “trading nativo”, con conseguente spostamento dell’interesse a strumentazioni finanziarie classiche.

A quel punto l’utente medio dovrebbe valutare con grande attenzione l’ipotesi del trading a medio periodo, privilegiando o una soluzione di puro accumulo in attesa di rivalutazioni così ingenti da giustificare anche un prelievo fiscale del 42% su cashout futuro (cosa che con Bitcoin risulta comunque difendibile, vista la struttura dell’asset e le previsioni fondamentali sulla sua crescita strutturale), o in alternativa valutare una strategia di investimento mediata dall’accumulazione sistematica (ossia senza cashout) di asset digitale, privilegiando gli exchange in grado di fornire una consulenza fiscale ottimale, e servizi collaterali in grado di estrarre comunque dal crypto-capitale forme di utilità reddituale spendibile.

Resta come ovvio aperta la questione dell’attrattività italiana per imprese, forza lavoro e investimenti connessi al settore. Un’attrattività che risulterebbe molto probabilmente offuscata, e che dunque rilancia il tema, fortissimo e sempre attuale, della necessità ormai impellente di far crescere la comunità crypto in modo da rendere le sue istanze sempre più all’ordine del giorno. Con l’intento, questa volta, di incidere nel dibattito politico prima ancora che sia la politica a incidere su di lei.

Una cosa è però certa e tutto sommato molto positiva: se l’intera faccenda doveva avere lo scopo di rilanciare il tema cryptovalute nel nostro paese, l’obiettivo è stato pienamente raggiunto.

Filippo Albertin

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