Ha ancora senso chiedersi se il portafoglio d’investimento 60/40 debba ritenersi ancora valido o se abbia perso negli ultimi tempi di significato? Per rispondere all’interrogativo, dobbiamo ammettere che siamo appena entrati in un periodo particolare con le elezioni americane del 5 novembre scorso. Il mercato azionario a Wall Street sale, mentre le altre borse mondiali si mostrano caute rispetto al nuovo corso. Un po’ ovunque, poi, il mercato obbligazionario sta ripiegando sulle attese di tassi d’inflazione più alti e una possibile guerra dei dazi tra le grandi economie.
Portafoglio d’investimento classico
La premessa iniziale è che azioni e bond sono due asset class considerate il più delle volte tra loro alternative. Le prime sono investimenti a titolo di partecipazione al rischio d’impresa. Non esprimono altro che un pezzo di capitale della società quotata in borsa. I secondi sono titoli di credito. Acquistandoli, l’investitore diventa creditore dell’azienda emittente e il suo rendimento è indipendente dai risultati di esercizio. Vero è che se le cose si mettono molto male sul piano finanziario, anche i bond rischiano di infliggere perdite persino totali al possessore. Tuttavia, nei casi ordinari il mercato azionario è adatto a coloro che hanno una certa propensione al rischio, mentre il mercato obbligazionario è più rassicurante per coloro che si mostrano avversi al rischio. In effetti, le azioni non garantiscono alcun rendimento e si mostrano soggette a volatilità nel breve termine. Viceversa, i bond offrono un rendimento certo fino alla scadenza e sono generalmente anche poco volatili.
Per queste caratteristiche descritte in maniera estremamente essenziale, le azioni tendono a remunerare l’investitore con rendimenti superiori ai bond o obbligazioni. Logico che sia così: più alto il rischio, più alto tendenzialmente il rendimento offerto. Ad esempio, l’indice S&P 500 ha reso in media il 6% all’anno negli ultimi 25 anni. E al netto dei dividendi staccati agli azionisti. Capite bene che si tratti di una scelta quasi obbligata quella di puntare sul mercato azionario quando si costruisce il proprio portafoglio d’investimento. Questi è dato dall’impiego dei capitali in vari strumenti finanziari, materie prime incluse. Negli ultimi anni, comunque, si è materializzata un’altra variabile capace in futuro di sparigliare le carte: le “criptovalute“. Volatili, ma altamente remunerativi in un’ottica di medio-lungo periodo.
Modello 60/40
Negli ultimi decenni, il mercato ha seguito idealmente un portafoglio d’investimento 60/40, anche definito “bilanciato” rispetto ai rischi assunti. Esso è caratterizzato dall’impiego dei capitali per il 60% in azioni e il 40% in bond. Qual è la logica sottostante? Poiché queste due asset class seguono trend differenti, l’investitore ha la possibilità di compensare i cali delle prime con i guadagni dei secondi e viceversa. Se la propensione al rischio sui mercati arretra, le azioni scendono. Tuttavia, i nostri bond continueranno ad offrirci un rendimento certo e saliranno anche di prezzo, consentendoci di bilanciare almeno in gran parte le perdite accusate virtualmente.
La strategia di un portafoglio d’investimento 60/40 si rivela importante specialmente per coloro che sono più in là con gli anni e magari puntano a disinvestire al raggiungimento dell’età pensionabile. Non avendo un orizzonte temporale molto lungo sui mercati, non si possono permettere di attendere che le azioni eventualmente impieghino anni prima di recuperare le perdite. Meglio restare cauti, quindi, ed esporsi in misura consistente sui bond. I più giovani possono azzardare di più. Hanno davanti a loro una prospettiva lunga, per cui possono ignorare le perdite anche per molto tempo.
Criticità nel decennio passato
Tutto ciò funziona fino a quando azioni e bond mostrano una correlazione negativa, nel senso che quando le prime salgono/scendono, i secondi scendono/salgono. Il problema per il portafoglio d’investimento 60/40 è nato proprio nel decennio passato. Le banche centrali si misero a comprare bond sui mercati dopo la crisi finanziaria del 2008. I loro prezzi esplosero e spinsero gli investitori a spostarsi sull’azionariato. L’eccesso di liquidità venutosi a creare divenne così ingente da mandare i rendimenti delle obbligazioni sottozero, cosa che non si era mai vista prima. Le azioni nel frattempo continuarono a salire. Era evidente la bolla finanziaria gonfiata dagli istituti centrali. Acquistare bond non ebbe più senso, poiché con i rendimenti negativi o al massimo di poco sopra lo zero si portavano a casa perdite reali e persino nominali.
Bagno di sangue nel 2022
La situazione divenne paradossale: gli investimenti in bond servivano a speculare sugli ulteriori apprezzamenti, mentre le azioni in un portafoglio d’investimento garantivano reddito grazie ai dividendi. Un ribaltamento dei fondamentali. Saltata ogni correlazione negativa tra le due asset class, ci si interrogò a lungo sull’opportunità di perseguire ancora il modello 60/40. E quanto accadde nel 2022 sembrò dare ragione ai critici. Non appena le banche centrali tornarono ad alzare i tassi di interesse dopo averli tenuti azzerati per anni, ritirando al contempo le misure di espansione monetaria, i prezzi dei bond crollarono e i rendimenti s’impennarono. Ci fu un bagno di sangue sull’obbligazionario, esattamente quanto temuto fino ad allora. Anziché fungere da ammortizzatori, i bond amplificarono le perdite accusate temporaneamente dall’azionariato.
Venendo ai numeri, si è potuto notare quanto segue: nel 2022 il portafoglio d’investimento 60/40 subì una perdita del 15,8%, ma l’anno dopo segnava un rialzo del 17,7%. E i dati al 6 novembre scorso parlano di un +15,5% per il 2024. Nell’ultimo decennio, quindi, secondo gli analisti di Vanguard, anche considerando il bagno di sangue del 2022 il rendimento medio è stato del 6,9%. Alla fin fine, sembra che il modello seguito abbia continuato a funzionare per come lo si è sempre desiderato.
Portafoglio d’investimento oggi
E per il futuro? Un portafoglio d’investimento 60/40 allo stato attuale sembra essere più sensato rispetto agli anni passati. I rendimenti dei bond sono tornati a normalizzarsi lungo la curva delle scadenze. I rendimenti negativi non esistono più su nessun mercato, neppure nell’avidissimo Giappone, in cui per imposizione della banca centrale il titolo di stato decennale non può offrire ad oggi più dell’1%. Questo ci dice che i bond sono tornati alla loro storica funzione di garantire un reddito certo, mentre le azioni restano l’asset class dall’appeal maggiormente speculativo e redditizio. Solo se le banche centrali tornassero ad iniettare liquidità come fino alla pandemia si ricreerebbe una situazione rischiosa per gli investitori più prudenti. Sembra, però, che per il momento abbiano imparato la lezione del 2022, quando si trovarono a fronteggiare tassi d’inflazione che non si vedevano dagli anni Ottanta e che spaventarono non poco anche i governi per i loro riflessi sociali devastanti. Un ricordo che servirà ad evitare il ripetersi degli errori del recente passato.