Negli ultimi mesi sta facendo notizia il mercato dei bond cinesi. Se c’è una cosa che ogni governo al mondo desidera, è potersi indebitare a tassi quanto più bassi possibili. In questo modo, può contribuire a stimolare l’economia senza gravare eccessivamente i conti pubblici, in quanto la spesa per interessi resterebbe bassa o scenderebbe perfino nel caso le nuove emissioni avvenissero a costi inferiori a quelle passate in scadenza. A Pechino sta accadendo proprio questo. A dicembre, la curva dei rendimenti è implosa ai minimi di sempre. Il rendimento decennale è sceso per la prima volta sotto il 2%, così come il rendimento trentennale. E successivamente è toccato al rendimento a 12 mesi offrire meno dell’1%.
Bond cinesi mai così avidi di rendimento
Oggi, i bond cinesi a 10 anni rendono l’1,63% e i trentennali l’1,87%. Sono numeri che farebbero invidia ai vari governi del pianeta. Tanto per fare un esempio, il Tesoro americano sui 10 anni è costretto ormai ad offrire più del 4,50%. Non è escluso che a breve debba sostenere un costo fino al 5%. Eppure il governo di Pechino non è affatto contento, tanto che nelle scorse settimane ha lanciato un avvertimento al mercato circa la necessità di non alimentare una bolla speculativa e invitando a guardare ai rischi.
Un apparente controsenso. Non si sente giornalmente, anzi mai, un governo che mette in guardia circa il rischio insito nell’acquistare i titoli del debito che emette. Questo paradosso si spiega con la paura crescente che i bond cinesi stiano lanciando un allarme simile a quello che scattò una trentina di anni fa in Giappone riguardo a quella condizione di bassa crescita e deflazione nota anche come “sindrome giapponese”. In pratica, il regime di Xi Jinping teme di fare la fine di Tokyo, che ci ha impiegato un quarto di secolo per uscire dalla deflazione e dopo tre decenni non è riuscita del tutto a scampare alla bassa crescita economica.
Pechino teme la deflazione
Cosa c’entra questo con i bond cinesi? I loro rendimenti sono così bassi per le aspettative d’inflazione altrettanto infime. Mentre le economie avanzate stanno a fatica uscendo da anni di alta crescita dei prezzi al consumo, in Cina le autorità di politica monetaria combattono contro il rischio di deflazione. Fino al gennaio dello scorso anno l’indice dei prezzi stava ripiegando. E ciò può sembrare positivo per i consumatori, che sostengono un costo della vita in calo. Tuttavia, quando accade il fenomeno riflette qualcosa che non va. Di fondo, c’è aria di pessimismo sull’economia, le famiglie spendono poco e le imprese tagliano gli investimenti. La riduzione dei prezzi si autoalimenta con il rinvio dei consumi e l’anticipo della produzione, acuendo il fenomeno e potenzialmente innescando una spirale recessiva molto seria.
La Cina non può permettersi di seguire il Giappone a questo stadio dello sviluppo. E’ ormai la seconda economia del pianeta dopo gli Stati Uniti, ma con un PIL pro-capite ancora di circa 12.500 dollari, grosso modo un terzo dell’Italia. Fermarsi adesso significherebbe rinunciare al sogno di diventare una grande economia ricca alla pari delle altre grandi del pianeta come Stati Uniti per l’appunto ed Eurozona. I ritmi di crescita stanno rallentando vistosamente negli ultimi anni. In sé è anche normale che accada, trattandosi di un fenomeno tipico di tutte le economie che hanno raggiunto un certo livello di benessere. Ma ci sono fattori endogeni dietro allo “slowdown”.
Modello di sviluppo da rivedere
La Cina ha abbracciato un modello di sviluppo basato su un capitalismo eterodiretto dallo stato. La proprietà privata, anche dei mezzi di produzione, è permessa e così anche la libera impresa. Tuttavia, lo stato controlla le attività economiche considerate strategiche sia direttamente, sia indirizzando i livelli di produzione e i prezzi. Le imprese che non trovano sbocco per le loro merci, sono incentivate e sussidiate per esportare gli eccessi di offerta all’estero. Questo meccanismo ha nel tempo provocato crisi settoriali globali anche pesanti, come quella dell’acciaio di un decennio fa.
Dopo una lunga fase di inerzia, le economie occidentali si sono mostrate intente a reagire. La retorica di Donald Trump contro la Cina si spiega come il tentativo dell’establishment americano di non farsi schiacciare dall’opportunismo cinese, a parole un’economia di mercato e nei fatti in mano al regime comunista. I bond cinesi rendono così poco anche per effetto della minaccia di Trump di imporre dazi fino al 60% sulle merci importate dal Dragone. Ciò provocherebbe un eccesso di offerta, che sul mercato domestico innescherebbe un circolo deflattivo. Ecco perché le aspettative d’inflazione sono basse e si trascinano dietro i rendimenti sovrani.
Eccesso di offerta permanente
Pechino sta cercando di reagire a questa crisi. Il governo aveva annunciato già qualche mese fa emissioni straordinarie di bond cinesi per 10.000 miliardi di yuan (circa 1.370 miliardi di dollari) negli anni seguenti per sostenere gli investimenti pubblici e ravvivare la crescita del PIL. Nel frattempo la Banca Popolare Cinese ha iniziato a tagliare i tassi di interesse, portando il “Loan Prime Rate” al 3,10% e riducendo anche il coefficiente di riserva obbligatoria per le grandi banche. Un modo per stimolare il credito all’economia. A dicembre il Politburo, che è un organo composto dai 24 alti funzionari anziani del Partito Comunista, ha emesso un comunicato dalla portata straordinaria, annunciando l’intenzione del governo di offrire sostegno alla crescita con stimoli sia fiscali che monetari.
Gli analisti non sembrano convinti che basterà. Serve riorientare il modello di sviluppo, che finora è stato incentrato essenzialmente sugli investimenti. Questi sfiorano il 45% del PIL, una percentuale circa doppia rispetto alla media delle altre grandi economie avanzate. Al contrario, i consumi privati sono molto bassi, non arrivando al 40% del PIL contro una media del 60% per le economie più avanzate. Questo eccesso di investimenti è alla base dei problemi cinesi, in quanto si traducono in elevata produzione e mantengono un forte squilibrio interno tra domanda e offerta. Lo stato ha incentivato questo sistema, specialmente all’indomani della crisi finanziaria mondiale del 2008-’09.
Bond cinesi con rating medio-alti
Per arginare un rischio simile, le autorità spinsero le imprese a prendere a prestito enormi quantità di denaro a basso costo, gran parte del quale andò a finanziare il settore delle costruzioni. L’ipertrofia di quest’ultimo ha portato alla creazione di una enorme bolla immobiliare, esplosa negli anni passati quando milioni di case e uffici rimasero invenduti. Colossi come Evergrande sono andati in default e dalla metà del 2023 i prezzi degli immobili residenziali non fanno che arretrare. Ecco che i bond cinesi ci appaiono adesso meno positivi rispetto a una lettura superficiale. Non è il rischio di credito ad essere diminuito trascinandosi dietro i rendimenti, bensì l’outlook economico ad essere peggiorato.
A fronte di un debito pubblico all’85% del PIL, le agenzie di rating non sono così generose come penseremmo. S&P gli assegna un giudizio di A+ con prospettive stabili, mentre Fitch, a parità di valutazione, ha mutato le sue prospettive in negativo e così anche Moody’s con il giudizio di A1. Come se non bastasse, c’è il fattore demografico ad infierire. La popolazione sta invecchiando molto velocemente. Il regime ha posto fine alla politica del figlio unico imposta per circa 40 anni, ma le nascite restano bassissime. Ciò porta in prospettiva a un calo demografico e già provoca un rallentamento nella crescita dei consumi e nella produttività delle imprese. Anche questa è una concausa dei bassi rendimenti dei bond cinesi. Una popolazione anziana spende di meno e lascia intravedere tassi d’inflazione più bassi. La Cina sta diventando vecchia ancora prima di diventare ricca. Il timore più grande della leadership comunista si sta avverando.