Una delle espressione più temute da chi è solito investire sul mercato sovrano è “ristrutturazione del debito pubblico”. Non a torto, per le ragioni che vedremo tra poco. Partiamo da un dato elementare. I governi sono soliti spendere più di quanto incassano principalmente dalle entrate fiscali e da altre voci minori, come i dividendi delle aziende di stato. Non necessariamente, visto che ci sono Paesi generalmente molto prudenti e che tendono a spendere entro i limiti delle entrate. Pensiamo, tanto per fare un esempio, alla Scandinavia.
Eccesso di spesa genera debito
Cosa succede quando le spese superano le entrate? Il governo è costretto a finanziarsi per la differenza. E quasi sempre lo fa ricorrendo al mercato dei capitali, cioè emettendo titoli di stato. Questi non sono altro che obbligazioni, cioè titoli del debito. Il debitore è lo stato, mentre il creditore è il possessore del titolo. Periodicamente, il primo è tenuto a corrispondere gli interessi al secondo, salvo che si tratti di titoli senza cedola, come nel caso dei BOT, che hanno scadenze brevi. Alla scadenza, sarà tenuto a rimborsare altresì il capitale. Con quali soldi? Emettendo altri titoli di stato, per cui con la mano destra salda i debiti e con la sinistra ne contrae altri.
A differenza dei privati, quindi, uno stato effettivamente non rimborsa mai o quasi mai i suoi debiti. Più semplicemente, li perpetua accendendone sempre di nuovi. Per questa ragione sentiamo spesso dire che uno stato non fallisce mai. Questo giochetto può andare avanti all’infinito, com’è nelle aspettative di tutti. Può accadere, però, che ad un certo punto non funzioni più. Pensiamo a uno stato che tende ad indebitarsi anno dopo anno, incurante dei conti pubblici. Alla scadenza del debito contratto in passato è costretto ad accenderne di nuovo, come abbiamo detto sopra. Tuttavia, se il mercato nota che i conti non sono a posto, richiederà tassi di interesse più alti. Di scadenza in scadenza, quindi, il costo di emissione sale. Ad esempio, scade un debito con cedola del 5% all’anno e il governo emette nuovo debito per ripagare il primo con cedola al 7%, poi all’8% e così via.
Rinegoziazione del debito con interessi fuori controllo
Ad un certo punto, il peso degli interessi monta e incide in misura crescente sulle entrate. Senza andare lontano, nel 1993 l’Italia pagava interessi per un quarto delle sue entrate. I contribuenti pagavano le tasse in buona parte non per ricevere servizi, bensì per servizi la montagna crescente del debito pubblico. La situazione diventa ancora più drammatica se i titoli di stato emessi sono denominati in una valuta diversa da quella nazionale. Questo avviene, in misura imponente, tra le economie emergenti per attirare capitali esteri con l’azzeramento del rischio di cambio. Poiché una valuta estera può rafforzarsi anche di molto contro la moneta nazionale, le esposizioni effettive possono esplodere.
Quando un governo ritiene di non essere più in grado di contrarre nuovo debito a costi sostenibili, generalmente avvia le procedure per la rinegoziazione del debito pubblico. Contrariamente a quanto immaginiamo, sul piano strettamente formale ciò non coincide con il default. Anzi, di solito è un passo compiuto proprio per evitarlo. Com’è ovvio, il governo perde l’accesso al mercato dei capitali. Nessuno gli presterà denaro fresco fino a quando non sarà stato siglato un accordo ufficiale con i creditori. In genere, il governo chiede contestualmente aiuto al Fondo Monetario Internazionale. Questi eroga un prestito a rate, ma in cambio di riforme economiche, tra le quali una politica di austerità fiscale (tagli alla spesa pubblica e/o aumenti delle entrate).
Varie misure possibili
Vediamo in cosa può consistere la rinegoziazione del debito, che il Fondo Monetario Internazionale richiede tra le condizioni preliminari per imporre perdite a carico del settore privato. Una delle prime decisioni, se non la prima, riguarda il cosiddetto “haircut”. E’ il taglio del valore nominale del debito emesso. Ad esempio, un creditore possiede un bond per 1.000 euro e lo stato gli offre di ridurne l’importo alla scadenza del 30%. Il rimborso scenderà a 700 euro. Perché l’obbligazionista dovrebbe accettare? L’alternativa sarebbe di non vedere un solo euro, perché se lo stato non ha sufficiente denaro, non pagherà nulla.
Un’altra richiesta può riguardare l’allungamento delle scadenze, misura anche nota come “rollover”. Ad esempio, tutti i titoli con scadenze entro i successivi 5 anni saranno rimborsati dopo 10 anni, ecc. In questo modo, lo stato guadagna tempo e accumula risorse con cui effettuare i rimborsi futuri. Entra in gioco molto spesso anche il taglio delle cedole: un bond prevede il pagamento dell’8% all’anno, ma lo stato chiede ai creditori di accettare il 4%. Può così ottenere risparmi sulla spesa per interessi, migliorando la situazione fiscale.
Sono possibili ulteriori misure, tra cui l’emissione al posto dei titoli di stato vigenti di nuovi con cedole o lo stesso capitale legati all’andamento del PIL. Questo accade presso diverse economie emergenti per agganciare l’entità dei debiti futuri al grado di crescita economica. E c’è anche la possibilità di ridenominare i vecchi titoli nella valuta nazionale. Ad esempio, un bond in dollari viene convertito per ridurre l’entità del debito estero, un passo spesso necessario quando le riserve valutarie si rivelano carenti. Il debito nella divisa domestica risulta anche maggiormente controllabile dallo stato che lo emette.
In Europa ci sono le CACs
Gli stati dell’Unione Europea appongono dal 2013 ai titoli di stato le Clausole di Azione Collettiva (CACs), che regolano il processo dell’eventuale ristrutturazione del debito. Il tema è controverso, perché semplificare le procedure per giungere un accordo da un lato è senz’altro positivo per gli stati, dall’altro può ridurre le garanzie dei creditori. Nel 2012 l’Unione Europea fece pressioni per ottenere dalla Grecia la rinegoziazione del suo elevato stock, ottenendo un “haircut” di 107 miliardi di euro. Formalmente, la procedura non portò alla dichiarazione formale di default e ciò indispose i creditori privati, che si ritrovarono nell’impossibilità di ricevere gli indennizzi tramite i CDS (Credit Default Swaps). L’evento diffuse tanta sfiducia sui debiti sovrani, alimentando gli investimenti in “criptovalute“.
Rinegoziazione del debito fa cessare l’eventuale default
La rinegoziazione del debito si conclude con l’accettazione dell’accordo da parte di una maggioranza qualificata di creditori. Non è infrequente che passino anche anni prima che ciò avvenga. Le controparti si riuniscono generalmente in associazioni, capeggiate da grossi investitori istituzionali, con l’obiettivo di ottenere le migliori condizioni possibili, tra cui la riduzione ai minimi del taglio del capitale e dell’allungamento delle scadenze. Possono essere messe ai voti più controproposte e alla fine si trova una soluzione che sia un punto di incontro tra le opposte esigenze. Se nel frattempo è scattato il default con annessa sospensione dei pagamenti, questi finalmente cessa e il governo riottiene l’accesso al mercato dei capitali. Ovviamente, specie in una prima fase, il ritorno sarà accompagnato da condizioni finanziarie relativamente gravose. Il tempo può ripristinare la fiducia tra gli investitori, come segnala proprio il successo della Grecia, oggi capace di strappare rendimenti inferiori a quelli persino di Italia e Francia.